Uno è il prodotto di una mente geniale, quella di J.J. Abrams, creatore di prodotti multiformi in grado di sconvolgere buona
parte dell’umanità ad ogni sua invenzione (dagli sperduti di
Lost, che negli States è approdato alla quarta stagione,
fino all’action di
Mission: Impossible III). L’altro è il ritratto puro, romantico e potentissimo della libertà di
un uomo che ha comunicato con il mondo attraverso l’ultima finestra del suo corpo rimasta aperta: il suo occhio sinistro.
Cloverfield di Matt Reeves e
Lo scafandro e la farfalla di Julian Schnabel non hanno nulla da condividere a
parte il desiderio di un racconto in prima persona, realizzato con l’uso esclusivo ed escludente della soggettiva. Un
procedimento narrativo che spinge lo spettatore a relazionarsi con i confini dello schermo, con i limiti dello sguardo e
con le potenzialità dell’immaginazione. I toni e le forme sono diversi ma, forse, i due film sono complementari perché
rivolti alle emozioni dello spettatore, protagonista indiscusso di un meccanismo che scatta prima dentro il corpo, poi si
manifesta al di fuori. Genera paura, tristezza, ansia, amarezza, rancore e rabbia.
Uno è l’esempio di come
show e
cinema siano la stessa cosa prima ancora che il film esca nelle sale. L’altro è
in apparenza un film antispettacolare.
Cloverfield, sfruttando un abile campagna pubblicitaria fantasma (su internet e basata sul passaparola) ha sviluppato
una rete di appassionati in grado di entrare nella storia di Abrams prima ancora dell’effettiva visione. Uno show
dichiarato, mondiale, dichiaratamente consumistico e spettacolarizzato al massimo. Un videogame divertente che racconta il
terrore in presa diretta attraverso l’uso di una videocamera digitale. Tutto ciò che si vede è ripreso da chi tiene in mano
la videocamera. Quindi, tutto avviene fuori e scoppia nel corpo di chi guarda che si sente automaticamente chiamato in
causa. Non è però un comportamento fisico. È più una conseguenza, una reazione inevitabile dettata da ciò che filtra la
realtà a cui si assiste: lo schermo della videocamera (protagonista indiscusso, da non confondere con l’occhio di chi
guarda).
Parte da dentro il corpo, invece, il film di Schnabel. Nella testa di Dominque paralizzato, con solo un occhio aperto che
usa per comunicare con il mondo. Un viaggio incredibile che conduce lo spettatore alla radice dei ricordi del protagonista,
dentro la sua vita, i suoi amori, le sue delusioni, le gioie e le amarezze.
Lo scafandro e la farfalla, terzo
lungometraggio che l’eclettico Julian Schnabel, videoartista e pittore, ha realizzato ispirandosi all’omonimo libro scritto
appunto da Dominique Bauby con uno speciale sistema linguistico di dettatura, rappresenta le fasi di avvicinamento alla
libertà (prima che fisica, soprattutto mentale) di un uomo che all’improvviso ha dovuto fermarsi. E stare a guardare.
Un film che fa riassaporare allo spettatore il gusto del guardare oltre, del superare i confini e i limiti dello sguardo,
dell’inquadratura e del cinema stesso. Un film che pone di continuo interrogativi sulla potenza e l’impossibilità della
visione. Dominique è diviso a metà (può muovere un solo occhio, l’altro glielo hanno chiuso) come lo spettatore che oscilla
tra soggettive di Dominique e oggettive di ciò che gli sta intorno. Un film diviso a metà, che per metà mostra la realtà e
l’immaginazione dal punto di vista di chi è fermo col corpo ma in viaggio con lo sguardo e per l’altra metà racconta le
reazioni, il disagio, la sofferenza, il limite ma anche il desiderio di contatto e relazione di chi sta fuori, di chi è
guardato e a sua volta guarda. Con sospetto e ammirazione, paura e senso di colpa. In questa infinita suddivisione, sempre
più livellata, sempre più suggestiva e provocante, fatta di occhi e pensieri, sentimenti e rancori, ustioni umorali e
infiammazioni visive si prende in considerazione pure la possibilità che il cinema, come strumento che mette al centro
l’occhio come parte sineddotica del corpo, possa ancora comunicare il dolore e la morte senza fermarsi davanti alle lacrime.
Schnabel miscela soggettive e oggettive dando al film un impianto che non necessita ricatti morali o patetismi per essere
valorizzato, esprime con coraggio la visione sghemba che Dominique ha del mondo, che a volte è sfocato, a volte è fuori
quadro e, soprattutto, nonostante la matrice fortemente antispettacolare del racconto, riesce a stimolare la fantasia dello
spettatore. Un racconto carico di emozioni che mira alla rappresentazione concreta della libertà (da qui il significato
del titolo: liberarsi dallo scafandro e volare come una farfalla) e, perché no, dell’amore.
Due tratti incompatibili che dimostrano potenzialità affini ma distanti, che contemplano la possibilità di raccontare il
reale, di spettacolarizzarlo, frantumarlo e rimodellarlo a piacimento. Uno è un giocattolino che entusiasma, ma fino ad un
certo punto. L’altro è un tappeto di emozioni visive e sonore che permettono allo spettatore di coniugare l’esperienza
visiva a quella sonora a quella della comunicazione di segni e forme.
Comunque due film che sono alla base della natura immaginifica del cinema. Visto che entrambi costringono a utilizzare
l’occhio come ponte per approdare nel mondo della libera fantasia.