Titolo originale: Little Miss Sunshine Regia: Jonathan Dayton, Valerie Faris Sceneggiatura: Michael Arndt Montaggio: Pamela Martin Musica: Mychael Danna Fotografia: Tim Suhrstedt Interpreti principali: Greg Kinnear, Toni Collette, Steve Carell, Alan Arkin, Abigail Breslin, Paul Dano Origine : Usa, 2006 Durata: 101'
Colore
Amore, viaggio e morte. C’è ciò che serve a un film riuscito in “Little miss sunshine”. Ma il suo merito è condensare il
meglio dell’America. Al termine di 101 minuti di pellicola che scorrono senza un’incertezza espositiva, trionfa il senso
della libertà, nonostante il sommarsi delle nevrosi umane della famiglia Hoover. Quella Libertà individuale, poietica,
che la cultura statunitense tanto difende contro tutto e contro tutti, a dispetto di mille paradossi. A sua volta, il
paradosso è la cifra narrativa della storia di Olive (Abigail Breslin), papà, mamma, zio, nonno e fratello. La farneticante
ossessione di papà Richard (Greg Kinnear) per l’affermazione di sé, si riscatta nel finale, quando è la piccola
Olive - sette anni di ingenua, pura determinazione - a ricordare con i fatti che tanta tenace intraprendenza ha senso solo
se finalizzata a concretizzare il desiderio. “Little miss sunshine” è un film riuscitissimo, che fa ridere, sorridere,
pensare senza compiacersi. Ottimo ritmo, regia curata, fantasia e credibilità. SAMUEL COGLIATI
Una famiglia decisamente disfunzionale (nonno eroinomane, padre che insegna come si diventa vincenti, moglie nervosa,
fratello muto per scelta, zio reduce da tentativo di suicidio) accompagna la novenne Olive ad un concorso di bellezza per
piccole miss. Il viaggio su un vecchio pulmino Volkswagen è prevedibilmente costellato di imprevisti e contrattempi,
ma si spera che alla fine il brutto anatroccolo (Olive è paffutella e occhialuta) alla fine si trasformi in cigno e trionfi
a nome della sua famiglia sfigata. Tutto andrà letteralmente per il peggio, ma la famigliola (o quel che ne resta)
ripartirà felice, alla fine di un vero e proprio viaggio di (ri)formazione, e al termine di un concorso dall’esito
imprevedibile. Morale conservatrice? (della serie: tutto va male ma in famiglia un po’ d’affetto non si nega a nessuno?).
No: è che in un mondo spietato e mostruoso rimanere se stessi è già una vittoria. Distribuito in Usa con sole 7 copie
iniziali (non so se mi spiego: una goccia nel mare) LMS si è conquistato un clamoroso successo, che ha contagiato
anche la vecchia Europa. E in effetti gli ci si affeziona: è intelligente e divertente; e il successo di un film che se la
prende col mito del successo è un bel successo. MAURO CARON
Il film non mi ha fatto impazzire…tanto meno la colonna sonora. Ma ci sono due “gioiellini”, due canzoni del cantautore
indie americano Sufjan Stevens, che meritano una particolare attenzione. Come la protagonista della vicenda (la piccola
Olive) il buon Sufjan sta tentando una “missione impossibile” che non può che strapparci un sorriso di benevolente
scetticismo: dedicare un album ad ognuno dei 50 stati americani. E proprio dalla seconda tappa di questo “titanico”
progetto discografico (di cui, forse, anche chi vi scrive, per motivi anagrafici, difficilmente riuscirà a vedere la fine…sigh)
è tratta Chicago il brano che accompagna il ritorno a casa dell’ “anomala” e rigenerata famiglia Hoover («I fell in
love again, all things go, all things go, drove to Chicago»). L’altra canzone presente nel film è No man’s land,
ottima atmosfera “on the road to California” che in qualche modo riprende la tradizione («This land is yours; this land
is mine»…caro buon vecchio Woody Guthrie) armonizzandola a strutture sonore elettroniche.
Insomma, non possiamo che augurare al nostro eroe musicista di raggiungere l’obiettivo che si è prefissato (50 anni di
carriera musicale…) citando le sagge parole di nonno Hoover: «Il vero perdente è uno che ha così paura di non vincere che
nemmeno ci prova». Buon viaggio Sufjan. MANUEL GIACOMINI