Da qualche parte dicono che vive bene
che relativamente non gli manca niente
può bere, camminare, scrivere e respirare
fantasma senza catene.
Da qualche parte dicono che è sempre uguale
anche se non si somiglia più
la mattina di Pasqua con le mani in tasca
e una corona di spine.
(
Condannato a morte, Francesco De Gregori,
Amore nel pomeriggio, 2005)
Il suo “…condannato a morte, condannato a vita…” suona come una concretezza nella promessa, un sogno realizzato nella
speranza di salvezza.
Le vite, le scelte e le speranze di Robert Neville, protagonista di I’m legend e di Chris McCandless, protagonista
di
Into the wild sono lontane anni luce, eppure si intrecciano. Condividono il viaggio della sopravvivenza, della
speranza, del ritorno.
Suona strano, forse, accostare due personaggi così diversi. È quasi una stonatura, eppure entrambi mettono in mostra e
rappresentano la forma dell’essere umano che è costretto (per scelta o per destino) a confrontarsi con la solitudine.
Nel film di Lawrence, Neville è il cacciatore di sopravvivenza che è preda e predatore di terribili zombies mutanti. Una
sorta di unico riferimento di saggezza e lucidità di pensiero, in grado ancora per poco di distinguere il Bene dal Male.
Un salvatore che ancora distingue la Luce dal Buio, che ancora cerca e ancora spera. Che vaga come un fantasma nella
civiltà di un tempo, diventata vera giungla d’asfalto. Nel ritratto di Lawrence, che si è ispirato al celebre romanzo di
Richard Matheson
Legenda del 1954, si viene a contatto con la paura del rimanere soli. L’agente contaminante è
proprio la paura, il timore di uscire allo scoperto, il terrore di essere scovati e catturati. Si mescolano generi e forme
in
I’m legend ma l’obiettivo è resta chiaro: l’uomo rischia l’autodistruzione perché viaggia verso la solitudine. Lo
scontro etico/morale tra Neville e la civiltà rimasta a tratti intatta (come nella videoteca) amplifica il discorso:
l’uomo-Neville ora che è rimasto solo controlla ancora di più il suolo controllabile, la rete fantasmatica di consumismo,
ideali, regole, luoghi. Robert Neville è un prodotto della solitudine che cerca la salvezza cercando l’Altro che non arriva.
Guarda, si muove, agisce metodicamente, si trasforma in bestia che difende il proprio territorio finché non si trova
costretto a rapportarsi con la realtà. Finché non si trova davanti un altro essere umano. Non più manichini o personaggi
dei cartoni animati. Umani. Scoppia un paradosso troppo grande da gestire pure per Lawrence che lentamente perde il
controllo della situazione. Ma nell’ultimo gesto di Neville si torna a parlare di sacrificio estremo per la salvezza. E
forse, anche in quel caso, si può intravedere una sorta di “…condannato a morte, condannato a vita…”.
Nel film di Sean Penn, magmatico esempio di road movie colmo di immagini, pulsioni, emozioni e brividi, si rincorre il
raggiungimento di una condizione ultima. Il viaggio autentico a cui assiste lo spettatore è quello che conduce Chris/Alex
a diventare altro, a riconciliarsi con la natura, a toccare il cielo. Le tappe di avvicinamento completano la costruzione
di un personaggio che fin dall’inizio guarda alle emozioni di ciascuno con gli occhi del dannato in cerca della Verità. Il
selvaggio a cui fa riferimento il titolo, e a cui spesso lo stesso Chris/Alex si rivolge, è il sinonimo di quella libertà
assopita o addirittura castrata dalla stessa civiltà che il Neville di
I’m legend cerca di ritrovare. Il film di
Sean Penn, tratto dal romanzo di Jon Kracauer
Nelle terre estreme, è il ritratto di un giovane idealista e concreto,
pronto a mettere in gioco la propria vita per ottenere la verità che da sempre gli è stata negata. Un personaggio estremo,
che rifiuta ogni forma di compromessi, forse un pazzo irresponsabile con la testa sulle spalle, che sceglie di spogliarsi
di ogni suo abito per essere carne e stelle, corpo e acqua, testa e terra. Chris/Alex si toglie la maschera e
Into the
wild diventa un film costruito sulla forza della natura che spinge lo spettatore a puntare la bussola verso la
solitudine scelta come forma di risposta ai mali della società o verso le dinamiche dei rapporti che, a loro modo,
conducono sempre da qualche parte. Quattro tappe fondamentali dalle quali si diramano sentieri infiniti. Quattro tappe che
sintetizzano la vita di Chris/Alex, sognatore e ricercatore di verità, in preda del sentimento forse più nobile e forse più
lontano per l’uomo come la purezza. Così Byron introduce alla nascita («Vi è un incanto nei boschi senza sentiero, vi è
un’estasi sulla spiaggia solitaria, vi è un asilo dove nessun importuno penetra, in riva all’acque del mare profondo, e vi
è un’armonia nel frangersi delle onde. Non amo meno gli uomini, ma più la natura»), Thoreau all’adolescenza («Più che
l’amore, i soldi, la fama, datemi la verità»), Olds all’età adulta («Vorrei andare da loro e dire “fermatevi, adesso basta,
lei è la donna sbagliata, lui è l’uomo sbagliato, farete cose di cui neanche pensate di essere capaci”») e Tolstoj verso la
strada della saggezza («Ho vissuto tante esperienze, e ora penso di aver capito cosa ci vuole per essere felici. Una vita
tranquilla e isolata in campagna, con la possibilità di essere utili a qualcuno…»). Tappe di avvicinamento ad una chiusura
finale e sempre più necessaria, sempre più tragica dove Chris/Alex raggiunge la consapevolezza che «la vera felicità è
quella che si può condividere con l’altro».
Percorsi diversi che sfociano, talvolta, in scelte affini. Come quelle musicali che in apparenza non hanno nulla da
condividere. Eppure
I’m legend prende spunto dal titolo di una delle raccolte più fortunate, importanti, necessarie
di Bob Marley (
Legend, the best of Bob Marley and the Wailers, 1984), citando esplicitamente il cantante giamaicano
come riferimento di salvezza e saggezza anche grazie al suo Reggae (
I shot the sheriff, Redemption song tra le
canzoni ascoltate nel film).
Into the wild, invece, attraverso Eddie Vedder, cantante e paroliere dei Pearl Jam, ha
potuto diffondere l’essenza del rock alternativo degli anni ’90 e le sfumature eterogenee del Grunge.
Due stili, soprattutto il secondo, difficilmente confinabili in determinati limiti e precise regole ma che completano la
vocazione di due film in cui il senso di solitudine si schianta inevitabilmente con le paure dell’uomo, le sue necessità,
i suoi sogni e la sua forza.
Due film, in fondo, che, sfruttando codici diversi, provocando emozioni diverse, mostrando mondi e realtà diverse,
raccontano l’uomo in ricerca.
Un uomo che non si accontenta e che non sta ad aspettare.
Un uomo che non si fa convincere, che non si fa condizionare.
La storia siamo noi, nessuno si senta offeso,
siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.
La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare,
questo rumore che rompe il silenzio,
questo silenzio così duro da masticare.
E poi ti dicono "Tutti sono uguali,
tutti rubano alla stessa maniera".
Ma è solo un modo per convincerti
a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.
Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone,
la storia entra dentro le stanze, le brucia,
la storia dà torto e dà ragione.
(La storia Francesco De Gregori, Scacchi e tarocchi, 1985)