FUORISCHERMO

 

PAROLE, ABISSI, SILENZI:
"La vita segreta delle parole"
SARAH POLLEY Una piattaforma petrolifera nel cuore dell’oceano. Una deflagrazione, un uomo nell’incendio e poi il buio. Titoli di testa.
Il frenetico e indaffarato ritmo di una catena di montaggio, una qualsiasi, non importa quale. L’avvicendarsi e lo scorrere di uomini e donne in divisa da lavoro. La macchina da presa isola il volto di una giovane donna. Il rumore di fondo si fa ovattato: si scopre che è sorda e può ascoltare solo attraverso un apparecchio acustico; ma quando vuole isolarsi dal resto del mondo lo spegne e attorno a lei tutto è silenzio.
Da una parte Josef, che dal lettino d’ospedale nel quale è finito dopo l’incidente, divenuto temporaneamente cieco, manifesta tutto se stesso attraverso la parola, con ironia, umorismo, per non lasciarsi travolgere dal dolore provocato dalle ferite fisiche e interiori; dall’altra Hanna, “costretta” all’isolamento dalla sua menomazione, ma alla ricerca del silenzio come unica e ultima forma di difesa rispetto alle tragedie e agli orrori che ha dovuto subire nel corso della vita.
Tutto questo intenso e sconvolgente film di Isabel Coixet ruota attorno a due poli: la parola, il silenzio. Per essere più precisi il film, come dalle dichiarazioni della regista, intende soffermarsi sul silenzio prima della parola: «…le parole girano nelle nostre teste, cozzano contro le corde vocali e combattono per uscire ed essere ascoltate dagli altri. E qualche volta si perdono in questo tragitto. Questo film vuole raccontare di queste parole che si perdono e vagano per lungo tempo nel limbo del silenzio fino a quando, un giorno, fuoriescono e, dal quel momento, nulla le può più fermare». Il percorso compiuto dalla parola (e dalle immagini) ha qui valore rivelatore e terapeutico; rivelatore, perchè SARAH POLLEY & TIM ROBBINS lavoro di scavo e estrazione dei segreti della propria esistenza dagli anfratti più oscuri e profondi del silenzio della coscienza:
«…Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso»;(1)
terapeutico, perché propedeutico all’incontro, alla conoscenza e, infine, all’amore unica possibile (forse) modalità di cura delle ferite profonde, fisiche e morali, dalle quali scaturisce ancora copioso il dolore. Anche se per Hanna tale dolore è enorme, lancinante, forse impossibile da sanare: in una sequenza tanto perfetta dal punto di vista filmico e della recitazione quanto straziante per lo spettatore, confessa a Josef il perché del suo “chiudersi a riccio” e della sua ricerca di solitudine descrivendo il terribile fardello che la opprime e, probabilmente, l’avrebbe oppressa per sempre: qualche anno prima, quand’era studente di medicina nel suo paese natio, la Croazia, nella primavera della sua vita, quando tutto sembra sorriderti e il futuro non è che un’esaltante avventura appena iniziata, precipita nell’incubo dello scoppio del conflitto nei balcani; catturata dai miliziani serbi, insieme alla sua amica del cuore, viene seviziata, torturata e stuprata ininterrottamente per mesi e mesi. Il passato, attraverso la parola fuoriesce come il pus scaturisce dalle ferite. La macchina da presa ci svela quante e quali orribili cicatrici coprano il suo corpo nudo.
La Coixet accompagna per mano lo spettatore all’interno di un autentico oceano di sofferenza e solitudine. Isolando le vicende al di sopra di una piattaforma petrolifera piantata in mezzo al mare e abitata da personaggi che, ciascuno per le proprie ragioni, trovano in essa l’approdo ideale della loro fuga dalla società.
SARAH POLLEY & TIM ROBBINS E’ in tale contesto di silenzio e solitudine che per Hanna e josef la parola si fa prossimità intima, legame profondo, forse amore; forse, perché su Hanna, come nella realtà è avvenuto a centinaia di migliaia di donne vittime della violenza del conflitto ed esuli dai balcani, la guerra ha lasciato una ferita talmente ampia e profonda da rendere impensabile una sua completa cicatrizzazione: «…voglio passare il resto della mia vita con te», le rivela Josef; Hanna alla fine accetta pur conservando profonda dentro di sé la paura che «…un giorno qualunque, in un posto qualsiasi, nella tranquillità della sua nuova famiglia, potrei mettermi a piangere e a gridare così forte che niente e nessuno potrebbe mai fermarmi.»
Un universo intimo e personale, dunque, talmente lacerato dall’orrore della guerra e dalla barbarie che neppure il lieto fine finale appare pienamente in grado di riconciliare.

(1) Da “Commiato”, Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti