Dopo la delusione (sua e nostra) per la fiaba/fiaba di
Pinocchio, Benigni torna alla formula che gli ha dato il
massimo successo, ossia fiaba/grande-tragedia-storica. Di nuovo, privilegiando il primo elemento (con una costruzione
letteralmente da manuale, che segue lo schema delle fiabe di magia individuato da Propp negli anni ’20), a scapito di un
contesto storico-ideologico (la guerra in Iraq con annessi e connessi) in fondo intercambiale con qualsiasi analoga
situazione bellica. La regia di Benigni e la messa in scena rimangono ad un livello di naïveté che ha fatto storcere il
naso a molti critici, che non si sono lasciati conquistare dalle molte citazioni poetiche e autocitazioni musicali e
cinematografiche (da Waits a Fellini, da Conte a
La vita è bella). Ma il messaggio e il tono dei suoi film (qui,
insieme all’amore laico, è la poesia come arte di realizzare l’impossibile e di unire gli opposti che realizza il miracolo
che salva dalla guerra e dalla morte) hanno comunque una grazia e una simpatia che si fanno perdonare le manchevolezze
stilistiche.
MAURO CARON