Alle opere prime, in generale, andrebbe sempre riservato un occhio di riguardo. Il cinema italiano ha visto, nella sua
storia, numerosi esordi folgoranti: solo per citarne alcuni, penso a Ossessione (1942) di Luchino Visconti, oppure a
I
pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio, fino a
Io sono un autarchico (1976) di Nanni Moretti. In generale,
tutti questi autori (chi più, chi meno) non hanno tradito poi le aspettative venutesi a creare con il loro primo film.
Alessandro Angelini deve ancora dimostrare molto (se non tutto) e il suo
L’aria salata non è esente da difetti; al
suo esordio dimostra, però, di avere il coraggio di affrontare temi complessi e (almeno in parte) inesplorati insieme ad
una buona capacità di “dirigere” gli attori. E se il “Buongiorno” si vede dal mattino...
Fabio, educatore nel carcere di Rebibbia scopre che il nuovo detenuto arrivato via mare è suo padre, che dopo essere stato
condannato per omicidio una ventina d’anni prima, aveva reciso ogni tipo di relazione con la moglie e i suoi due allora
piccoli figli.
Ottimo esordio alla regia di Angelini in un film scritto a quattro mani con il suo grande amico Angelo Carbone. Una vicenda
concentrata sul drammatico rapporto tra un padre schivo e scostante, abituato dalla vita (e dal carcere) ad impostare i
rapporti interpersonali sul “confronto fisico” e un figlio (Giorgio Pasotti) che crede, invece, nella possibilità di
cambiare il mondo e le persone attraverso il dialogo e la parola. A far da sfondo a questo incontro un passato difficile
fatto di violenza e sensi di colpa, da una parte, e da sacrificio e voglia di “riscatto” (quella specie di naturale
inclinazione al bene che nasce e cresce nei figli di padri che hanno commesso crimini pesanti) dall’altra. Un film che ha
anche il merito di far entrare la macchina da presa in un carcere e quindi di raccontare una porzione di una realtà ai più
quasi del tutto sconosciuta. Questo anche grazie al bagaglio personale del regista:
«La decisione di ambientare la
storia in un carcere ha preso spunto da una mia esperienza di volontariato nel penitenziario di Rebibbia, a Roma. Ero
rimasto molto colpito dall’immagine della fila dei parenti in attesa del colloquio, e in particolare dei bambini, che non
si rendono conto del luogo in cui si trovano, e continuano a giocare portando la loro felicità all’interno della struttura
carceraria». E’ proprio sul contrasto tra l’innocenza apparente, che sa tanto di rimozione, con la quale un bimbo vive
sulla propria pelle vicende così dure, e il loro improvviso riaffiorare in età adulta come un pugno nello stomaco, che il
film pare sviluppare uno degli assi tematici. Paradigmatica in questo senso la sequenza d’apertura nella quale Colangeli,
imbarcato su un traghetto, rivela ad un bambino che gli porge un foglio su cui vi è disegnato un prato che l’erba non è,
nella realtà, così verde e brillante; che se guardi un prato da vicino è pieno di nero, della terra. Una visione,
contrastata e contraddittoria della vita, insomma, all’interno della quale anche le relazioni compresa quella padre-figlio
sono da intendersi come una conquista difficile fatta di rapide accelerazioni e brusche retromarcie; un processo dinamico
all’interno del quale ciascuno singolarmente deve fare un passo indietro. Colangeli è stato premiato proprio per la
credibilità con la quale riesce a restituire allo spettatore il conflitto interiore tra la maschera-personaggio che si è
venuta “scelorotizzando” nell’esperienza del carcere (quella dell’uomo freddo e antipatico che pone continue barriere tra
sé e il proprio interlocutore) e la grande umanità ed amarezza dell’uomo sconfitto che, messo di fronte ai propri errori,
desidera in maniera insopprimibile di riaccostarsi al figlio. Angelini decide di raccontare tutto ciò attraverso l’uso
della macchina a mano che spesso e volentieri si sofferma sulla psicologia dei rapporti attraverso strettissimi primi
piani, quasi a voler spiare i personaggi da vicino, eliminando tutto ciò che è di contorno: «È come se la macchina da
presa – e quindi lo spettatore –
fosse dentro a questo triangolo familiare (vi è inclusa anche la sorella,
interpretata da Manuela Cescon, la quale si oppone con tutte le sue forze al ritorno del padre sulla “scena” della loro
vita) e
facesse fatica ad uscirne». Da apprezzare anche il tono sobrio e asciutto della narrazione e la resa
cromatica fredda e sgranata. Unico neo: il finale, brusco, “strappato” e poco credibile, nel quale si avverte la sensazione
che non si sapesse con precisione come dipanare la complicata e preziosa matassa narrativa precedentemente intrecciata.