La sequenza d’apertura suona come un avvertimento, in mezzo a tutti quei mobili disusati e polverosi. La Comencini persegue
un’idea di cinema famigliare, di drammi intimisti in interni borghesi. Quando i personaggi escono, sono a disagio, in
campus disabitati, su treni deserti, appartati in eremi pugliesi. Aprire qualche finestra tematica o narrativa per far
circolare un po’ d’aria fresca, non serve tantissimo: la storiella del teatrante di talento ormai venduto e asservito alla
televisione cattiva (salvo rivalsa finale) è bolsa, quanto quella dell’amica abbandonata dal marito per una ragazzina e che
trova conforto nell’amore saffico per la bella cieca (salvo litigatine paraconiugali) manca di necessità. C’era una
metafora interessante, quella del doppiaggio, ma non è sfruttata più di tanto. La Mezzogiorno è salita sul piedistallo di
brava attrice, e da lì si guarda in giro. Speriamo avvisti dei bei film.
MAURO CARON
Le cicatrici come fotografie. Sbiadite, nascoste. Come segreti. Chiusi in qualche cassetto profondo del cuore. I ricordi
sono proiezioni, riflessi, specchi del passato, ombre. Ma anche lacrime colorate che sporcano. Oppure polvere che lascia
il segno. I ricordi di Sabina ci avvolgono in un emozionante viaggio. Intimo, personale, sofferto. Un viaggio nel profondo
del cuore, il punto da dove partono le lacrime, da dove nascono i ricordi. Il punto da dove parte l’odio. Che a volte
corrode, proprio come una bestia feroce, in grado di radere al suolo qualsiasi cosa. In grado di annientare qualunque
sorriso. Tratto da un romanzo della stessa regista, la vicenda mette a fuoco quello che gli occhi non vedono. Quella parte
nascosta, buia, rinchiusa chissà dove. Dimenticata e rimossa. Ma comunque presente. Una vicenda commovente realizzata con
disincato, senza dispersioni retoriche. Onesta e amara. Una storia che mette luce e in luce una serie di problemi attuali
come la violenza dei minori. La falsità delle apparenze famigliari in cui tutto sembra. La fatica nel ricominciare a vivere,
portando un peso nel cuore. Un viaggio profondo e appassionato. Uno sguardo affranto verso l’immagine. Che in certi casi è
salvezza, un ricordo, una bussola. In altri casi è disperazione, morte di una vita, buio. Si chiude un ciclo: dalla morte
iniziale, si passa alla nascita finale. Ottimo cast.
MATTEO MAZZA
C'è un'ombra onirica nel cuore di Sabrina (Giovanna Mezzogiorno, premiata a Venezia), doppiatrice in attesa di un figlio e
in ansia per un buco nero nei ricordi d'infanzia. Dovrà oltrepassare l'oceano e raggiungere il fratello maggiore (Luigi Lo
Cascio), introverso professore a Charlottesville con qualche problema di relazione con i figli, per capire che cosa vi si
nasconde dietro. Aperto magistralmente da un dolly al cimitero e da una lunghissima carrellata laterale sui luoghi,
sinistri e polverosi, dell'orrore, il film della Comencini, per attenuare la scabrosità del tema, indugia un po' troppo
sui teatrini tragicomici di contorno, pur con azzeccatissime interpreti come Angela Finocchiaro e Stefania Rocca, che
rendono meno improbabile una
liason un po' forzata. Appaiono invece meno felici le parti di Alessio Boni, puntualmente
corrucciato e scorbutico, e di Giuseppe Battiston, improbabile regista di
fiction televisive in crisi d'identità. Solido
nel disegno psicologico dei protagonisti e compatto nella struttura narrativa, il film non ha però il coraggio di osare
fino in fondo, come dimostra anche un finale fin troppo facile.
MASSIMO ZANICHELLI