FUORISCHERMO

 

UN SOTTILE PULVISCOLO NELLA LUCE: SPUNTI DI POST-VISIONE
FABIO RADAELLI
INLAND EMPIRE Parlare di Inland Empire è come voler afferrare quel sottile pulviscolo che si alza quando lo straccio passa sul legno e fa evaporare la polvere; c’è sempre il fatto che dare un senso a un’opera d’arte è il tentativo di addomesticare, di mutilare una molteplicità riducendola a unità, di normalizzare una forza vitale che urla, inquieta, che non vuole farsi possedere del tutto. Forse è un modo per portarla a casa e archiviarla, chiudendola in una categoria tranquillizzante e in un messaggio univoco e utilizzabile per le citazioni a pranzo con gli amici o nei corsi universitari. Forse è tutto questo o forse è solo un punto privilegiato da cui osservare il magma incandescente e gustarne meglio la bellezza. Quest’operazione per film come Inland Empire è tuttavia necessaria, purché consapevoli che il testo non ha una sola via e non ne ha nemmeno una principale, ma tante vie quanti sono gli spettatori. Insomma Lynch ha il potere di farti sentire speciale perché ti dice chiaramente che la tua chiave di lettura è un pezzo del puzzle e potrebbe smascherare un pezzo di verità. Rinunciare a fare questo tentativo vuol dire abdicare al proprio ruolo di lettori e dimidiare lo spettacolo. In questo senso è un’operazione necessaria. Infatti l’arte nei film di Lynch emerge come il risultato dell’alchimia tra l’autore e i co-autori (gli spettatori) che attivano letture e intuizioni profondamente diverse.
Sulla base di questo ragionamento posso affermare che Inland Empire rappresenta un atto d’amore del regista per il suo cinema, grazie a un’affascinante spirale di immagini e storie che aggroviglia la fantasia dello spettatore e che si dissolve davanti alla bellezza soave di quel lungo bacio rivelatore. Un bacio che squarcia le nubi dell’inconscio e che rivela possibilità ermeneutiche fino ad allora rimaste latenti tra le scatole cinesi in cui si dissolve progressivamente la narrazione. Il bacio tra il personaggio che guarda e il personaggio che è guardato mi sembra l’espressione profonda dell’amore che lo spettatore prova per l’opera d’arte e che lo porta al punto di passare oltre, di “aprire la porta” ed entrare nell’opera stessa. Di più: contribuisce a crearla. Bacio saffico, bacio tra due metà dello stesso corpo. Già, perché la storia che non è più storia, ma un ripetersi e aggrovigliarsi di emozioni e situazioni, costringe lo spettatore ad assumere il ruolo di co-protagonista. E a decifrare il magma artistico grazie al suo potere intuitivo. Diventa la sua storia ed esiste perché lui esiste. Ecco quindi che chi guarda si deve perdere nelle storie, (che qui sono una summa immaginifica e girandolesca di pezzi lynciani: Rabbits, Axxon N., Darkened frantumati e ricomposti dalla mano immaginifica del regista) per poterle “sentire” e farle diventare significanti. Tutti insieme appassionatamente quindi: pezzi di storie INLAND EMPIRE passate, intuizioni dello spettatore e attori che diventano personaggi o che rimandano a personaggi passati e quindi ad altre storie.
Dopo il bacio che disvela ecco riapparire lei, immensa nel suo ruolo di attrice-personaggio: Laura Dern. Dopo il bacio, dopo l’entrata dello spettatore nel film, ecco che Laura rimane al centro dell’inquadratura, omaggio al suo genio. Vien voglia di alzarsi e di applaudire e unirsi a quel rumore di fondo sempre indecifrabile, sempre drammaturgicamente presente nel corpo del testo. Lynch la suggella e la immortala.
Poi sullo schermo ritorna la sibilla che sa come leggere il tempo e cerca di mostrarlo anche a noi e ci riporta là dove il tutto era iniziato, dove la prospettiva è stata ribaltata per la prima volta.
Qui il film si chiude e sui titoli di coda ecco la canzone finale che si rivolge allo spettatore, che gli parla direttamente mischiando personaggi veri e immaginari, autori e attori, spettatori e attori in un tourbillon che assomiglia tanto al cinema di Lynch da poter coronare degnamente questo suo film.