Parlare di Inland Empire è come voler afferrare quel sottile pulviscolo che si alza quando lo straccio passa sul legno e fa
evaporare la polvere; c’è sempre il fatto che dare
un senso a un’opera d’arte è il tentativo di addomesticare, di
mutilare una molteplicità riducendola a unità, di normalizzare una forza vitale che urla, inquieta, che non vuole farsi
possedere del tutto. Forse è un modo per portarla a casa e archiviarla, chiudendola in una categoria tranquillizzante e in
un messaggio univoco e utilizzabile per le citazioni a pranzo con gli amici o nei corsi universitari. Forse è tutto questo
o forse è solo un punto privilegiato da cui osservare il magma incandescente e gustarne meglio la bellezza.
Quest’operazione per film come Inland Empire è tuttavia necessaria, purché consapevoli che il testo non ha una sola via e
non ne ha nemmeno una principale, ma
tante vie quanti sono gli spettatori. Insomma Lynch ha il potere di farti
sentire speciale perché ti dice chiaramente che la tua chiave di lettura è un pezzo del puzzle e potrebbe smascherare un
pezzo di verità. Rinunciare a fare questo tentativo vuol dire abdicare al proprio ruolo di lettori e dimidiare lo
spettacolo. In questo senso è un’operazione necessaria. Infatti l’arte nei film di Lynch emerge come il risultato
dell’alchimia tra l’autore e i co-autori (gli spettatori) che attivano letture e intuizioni profondamente diverse.
Sulla base di questo ragionamento posso affermare che Inland Empire rappresenta un atto d’amore del regista per il
suo
cinema, grazie a un’affascinante spirale di immagini e storie che aggroviglia la fantasia dello spettatore e che si
dissolve davanti alla bellezza soave di quel lungo bacio rivelatore. Un bacio che squarcia le nubi dell’inconscio e che
rivela possibilità ermeneutiche fino ad allora rimaste latenti tra le scatole cinesi in cui si dissolve progressivamente
la narrazione. Il bacio tra il personaggio che guarda e il personaggio che è guardato mi sembra l’espressione profonda
dell’amore che lo spettatore prova per l’opera d’arte e che lo porta al punto di passare oltre, di “aprire la porta” ed
entrare nell’opera stessa. Di più: contribuisce a crearla. Bacio saffico, bacio tra due metà dello stesso corpo. Già,
perché la storia che non è più storia, ma un ripetersi e aggrovigliarsi di emozioni e situazioni, costringe lo spettatore
ad assumere il ruolo di co-protagonista. E a decifrare il magma artistico grazie al suo potere intuitivo. Diventa la sua
storia ed esiste perché lui esiste. Ecco quindi che chi guarda si deve perdere nelle storie, (che qui sono una summa
immaginifica e girandolesca di pezzi lynciani: Rabbits, Axxon N., Darkened frantumati e ricomposti dalla mano immaginifica
del regista) per poterle “sentire” e farle diventare significanti. Tutti insieme appassionatamente quindi: pezzi di storie
passate, intuizioni dello spettatore e attori che diventano personaggi o che rimandano a personaggi passati e quindi ad
altre storie.
Dopo il bacio che disvela ecco riapparire lei, immensa nel suo ruolo di attrice-personaggio: Laura Dern. Dopo il bacio,
dopo l’entrata dello spettatore nel film, ecco che Laura rimane al centro dell’inquadratura, omaggio al suo genio. Vien
voglia di alzarsi e di applaudire e unirsi a quel rumore di fondo sempre indecifrabile, sempre drammaturgicamente presente
nel corpo del testo. Lynch la suggella e la immortala.
Poi sullo schermo ritorna la sibilla che sa come leggere il tempo e cerca di mostrarlo anche a noi e ci riporta là dove il
tutto era iniziato, dove la prospettiva è stata ribaltata per la prima volta.
Qui il film si chiude e sui titoli di coda ecco la canzone finale che si rivolge allo spettatore, che gli parla
direttamente mischiando personaggi veri e immaginari, autori e attori, spettatori e attori in un tourbillon che assomiglia
tanto al cinema di Lynch da poter coronare degnamente questo suo film.