Avevo grande interesse e parecchia curiosità per l'uscita del nuovo film di David Lynch,
INLAND EMPIRE (rigorosamente
in maiuscolo per volontà del regista), distribuito nei cinema venerdì 9 febbraio (anzi, parlando di Milano, in un solo
cinema, l'Arlecchino di via S. Pietro all'Orto, a due passi da San Babila).
David Lynch (americano, classe 1946, nativo di Missoula, nel Montana) è infatti uno dei massimi cineasti del nostro
presente, non solo per il grande talento visionario ma anche per l'audacia della rappresentazione. La sua filmografia
dimostra infatti come questo regista sia sempre stato in anticipo sui tempi. Se
Eraserhead, del 1975, è ancora oggi
un unicum nella storia del cinema per struttura, stile e personaggi, un viaggio (partorito dopo cinque travagliatissimi
anni) nella materia e nella coscienza di tale arditezza da scavalcare le categorie più frequentate dell'
umheimlich
cinematografico, finendo addirittura per essere il film preferito di Stanley Kubrick, che ne custodiva gelosamente una
copia nel suo castello inglese, proiettandolo ogni tanto agli amici più intimi,
The Elephant Man (1980), ancora in
bianco e nero, è stato uno degli esempi più felici di fusione tra esigenze commerciali e tratto personale, mentre
Dune (1984), pur nella sua incompiutezza, era un primo, importante tentativo di costruire una fantascienza d'autore
che esplorava la mente mentre s'interrogava sui meccanismi del destino. Quindi
Velluto blu (1986) e
Cuore
selvaggio (1990) rivelarono universo e capacità di un regista che non assomigliava a nessun altro, mentre il serial
Twin Peaks rivoluzionava il mondo della fiction televisiva e la coppia formata da
Strade perdute (1996), a
parere di chi scrive il suo film più innovativo e ammaliante, e
Mulholland Drive (2001) decretavano - dopo la
parentesi di un film altamente sperimentale sotto le mentite spoglie di un prequel commerciale:
Fuoco cammina con
me (1992) - un "nuovo" tipo di cinema, esigente nel chiedere allo spettatore di abbandonarsi al flusso di un racconto
non-lineare senza pretendere spiegazioni razionali, e coraggioso nel mettere in scena universi paralleli e paradossi
spazio-temporali.
Il (sottile, impalpabile) filo narrativo di INLAND EMPIRE sembra riprendere quello già dipanato dal "dittico" formato da
Strade perdute e
Mulholland Drive, così come il cast del film raccoglie, all'interno dell'universo visivo
lynchiano, figure familiari e volti nuovi.
Dopo un prologo in Polonia, con colori desaturati e inquadrature "sporcate" dal tempo, come se le riprese arrivassero da un
archivio (filmico o quantomeno mnemonico, come si potrebbe dedurre in rapporto a quello che succederà), entra
nell'appartamento (e nella vita) di Nikki Grace (Laura Dern, già protagonista di
Velluto blu e
Cuore selvaggio), la figura sinistra di una vicina di casa (Grace Zabriskie, già madre di Laura Palmer in
Twin Peaks e inquietante killer in
Cuore Selvaggio), una sorta di piccolo demiurgo narrativo. La sequenza
funge da cornice all'intero della storia e il trattamento linguistico offerto da Lynch è del tutto inedito rispetto ai suoi
film precedenti: il regista americano opta qui per una tecnica di ripresa quasi interamente digitale a svantaggio del 35 mm
(che Lynch ha dichiarato non userà più in futuro), rinunciando all'amato cinemascope (ma non alle penombra sature di
oscurità) a vantaggio di un gioco serrato di primissimi piani. Il confronto tra quelli schiacciati dal grandangolare della
Zabriskie e quelli invece più orizzontali della Dern è considerevole per novità e implicazioni, proiettando subito il film
verso una dimensione allucinatoria quando, dopo un tempo considerevolmente lungo, il piano schiacciato e obliquo dove
agisce la vicina di casa assorbe anche Nikki, producendo il primo "controcampo metafisico" del film: Nikki si vede
sdoppiata in un "altro da sé" all'interno del proprio appartamento, un alter ego che godrà di grande autonomia narrativa.
Questo primo "passaggio di consegne" è fruttifero: la predizione della vicina di casa si è rivelata esatta: Nikki è nel
cast di un importante film hollywoodiano diretto dall'affermato regista Kingsley Stewart (Jeremy Irons, al suo esordio
assoluto nella filmografia lynchiana) e interpretato da un attore che ha fama di grande seduttore, Devon Berk (Justin
Theroux, già regista sotto scacco in
Mulholland Drive). Ma, dopo le schermaglie in un
talk show guidato da
una presentatrice a caccia di scandali (Diane Ladd, la Marietta di
Cuore selvaggio), la prima sessione di prove,
dove la Dern e Theroux ripropongono le strategie del provino di Naomi Watts (qui solo voce narrante) in
Mulholland
Drive, innesca il punto di non ritorno: non solo infatti sembra che sul set ci sia qualcuno che sta spiando nell'ombra,
ma lo stesso regista confessa che il film non è un'opera originale, ma addirittura un
remake di un film mai portato
a termine per l'assassinio dei due principali interpreti, gettando quindi un ipotetico ponte spazio-temporale sulle
sequenze parallele ambientate in Polonia, girate con dominanti monocrome tendenti all'ocra e una pista sonora densa di
scricchiolii che ricorda le registrazioni del vinile, sequenze che arrivano probabilmente dal passato (reale o
cinematografico?), o forse da un sua aporia "parallela", ma che offrono pericolose assonanze con il presente (anche se in
INLAND EMPIRE presente passato e futuro sono categorie temporali assolutamente ininfluenti): Nikki è infatti
coinvolta in una relazione adulterina con Devon,
al di là di quella praticata sul set e nonostante le reiterate
minacce del marito, un temibile gangster con il dono dell'ubiquità (come il Mistery Man di
Strade perdute) che spia
i tradimenti della moglie. Siamo più o meno a un'ora di film (la durata totale è di tre ore) e a questo punto il meccanismo
filmico sembra irrimediabilmente incepparsi. A differenza infatti dei due film precedenti la struttura narrativa - che
pare essere soprattutto frutto di un'improvvisazione sul set, con Lynch che lavorava a braccio senza una sceneggiatura
- esplode in una miriade di frammenti filmici senza direzionalità (paradossale, frattale e discontinua che sia),
moltiplicando le finestre dell'azione (una nell'altra, sopra all'altra, accanto all'altra secondo un
dentro/fuori/vicino/prima/dopo di vertiginosa quanto improduttiva portata) in una sorta di
patchworkdiegetico che
contempla tutto e il suo contrario e dove i personaggi vivono continue spersonificazioni, sovrapposizioni e
moltiplicazioni del proprio io, a partire dalla protagonista (è naturalmente lei stessa a spiarsi durante il primo giorno
di prove, come era Fred Madison, dopo la "cura rigenerativa" offerta da Pete Dayton, a citofonarsi in
Strade perdute
per dirsi che «Dick Laurent è morto»): una Laura Dern, qui in una performance di primissimo piano (oltre che nelle vesti di
co-produttrice), che più che vivere due volte come la Patricia Arquette di
Strade perdute sembra
moltiplicarsi/frantumarsi nell'"uno/nessuno/centomila" di pirandelliana memoria. E mentre ogni tanto fanno capolino,
come una specie di coro cieco e paradossale, i conigli antropomorfi di una bizzarra sit com (con tanto di risate
preregistrate), che agiscono in uno spazio miniaturizzato di notevole suggestione visiva (è una delle invenzioni più
folgoranti e sinistre del film), e mentre i personaggi chiave si appropriano l'uno l'altro di frasi altrettanto cruciali,
l'azione si disperde in un nugolo impressionante d'inquadrature brevi, sequenze mozzate, personaggi che vanno e vengono
(la Doris Side di Julia Ormond, altro volto inedito, i criminali polacchi, un gruppo di prostitute dalle diverse identità)
alla ricerca di una stabilità che non potranno mai avere, di uno sfogo narrativo continuamente interdetto, di una
risoluzione abrogata per statuto, di un'identità continuamente riverberata e scissa, mentre i bassi dei subwoofer
martellano le orecchie dello spettatore e il film diventa un caleidoscopio presuntamente emozionale di azioni e
controreazioni di «storie che nascono dall'immaginazione». Una deriva sistematica di linguaggio, luoghi e personaggi dove
tutto è permesso e tutto è continuamente intercambiabile. Così, tra elementi organici, texture in macrovisione e suoni
minacciosi, lo spettatore, dopo un'ora «con tutte le antenne ermeneutiche rizzate» (Caron), sgancia inevitabilmente la sua
attenzione e comincia ad essere attirato da altri fenomeni extra-diegetici, o per meglio dire extra-filmici: il rumore dei
tacchi di alcune persone che lasciano la sala; il rumoroso russare di qualcun altro un paio di file più indietro; i pochi
brusii di malcontento/frustrazione in rapporto al silenzio imperante (siamo tutti sotto ipnosi?), considerando la copiosa
affluenza (la sala, per essere una domenica pomeriggio di sole, è straordinariamente piena, ho dovuto fare la coda per
entrare e fuori c'è già gente in fila che aspetta); desiderare un Mac per registrare i comportamenti del pubblico, le
proprie reazioni psico-cognitive, appunti a piè di schermo sul film. E forse tutto questo è parte programmatica di
un'opera sempre più dentro la sua funzione di
object-art sganciato dalla prassi e proiettato verso ulteriori
orizzonti di rappresentazione. Che però ormai non distingue più tra solipsismo e comunicazione, tra delirio privato e
creatività, tra improvvisazione fine a se stessa e costrutto personale. Le ultime due ore di
INLAND EMPIRE sono un
trionfo della monotonia: tutto si ripete, si riannoda, s'inviluppa, tutto è già stato visto (nel cinema di Lynch)
risultando
fondamentalmente prevedibile e noioso, al di là delle variazioni sul tema, dei vettori narrativi come
onde musicali, della destrutturazione dei codici più classici di composizione e racconto. Così navigando a vista tra
smantellamenti, scissioni, proiezioni, decostruzioni ed eterni ritorni, con tanto di apologia autoreferenziale (nel finale
compare addirittura Laura Harring, la Rita/Camilla di
Mulholland Drive, nella parte di se stessa), grotteschi
scorci metafilmici (per la prima volta nel cinema di Lynch fa capolino la domanda: ma questo magma è prodotto dalla
realizzazione del film nel film?) e citazioni letterali di
The Shining nella sequenza sulla presunta morte di Nikki
Grace/Susan Blue (compresa la musica per archi di Penderecki), l'impressione è che
INLAND EMPIRE sia un'esperienza
certo estrema, anche persistente (per certi versi terribilmente persistente: i conigli visiteranno a lungo i vostri sogni,
soprattutto quelli in stato di veglia) ma pure esornativa, compiaciuta e ripetitiva, troppo in balìa di se stessa: certo
al di là del giudizio - categoria ormai inapplicabile -, senz'altro al di là del bene e del male dell'estetica, ma anche
irrimediabilmente
al di qua del piacere.