Un piccolo grande film da raccontare e consigliare agli amici. Un incontro da ricordare, da conservare nel cassetto tra le
esperienze che fanno crescere, che aiutano ad andare avanti nella ricerca della propria identità e del proprio posto su
questo mondo.
Il film è
Il vento fa il suo giro (E l’aura fai son vir), pellicola in lingua Occitana nata da un’esperienza unica di
autoproduzione che non ha ottenuto alcun tipo di finanziamento pubblico e che, una volta ultimata, non ha incontrato
neppure l’interesse del circuito distributivo. Un film almeno in parte “salvato” da tutte le realtà, cinecircoli, esercenti
“illuminati”, associazioni che, dopo averlo visto in uno dei molti festival in cui ha trionfato, hanno deciso di
riservargli uno spazio più o meno grande nei propri programmi culturali.
L’incontro è quello con Thierry Toscan, interprete protagonista della pellicola, autentico esempio di artista a 360 gradi:
nella sua ormai trentennale carriera, approdata solo da poco al “mestiere” dell’attore, ha sperimentato svariate forme e
linguaggi espressivi tra i quali quello della scultura, della pittura, della composizione musicale, della
scenografia...
Quanto riporterò di seguito è il resoconto libero e soggettivo di una indimenticabile e calda serata estiva, trascorsa
insieme a Thierry, cominciata a tavola davanti a una bottiglia di buon “rosso” toscano, proseguita con gli spettatori del
“Rondinella” di Sesto San Giovanni e conclusasi a notte inoltrata davanti a una refrigerante pinta di birra.
Chi è veramente Thierry Toscan?
Thierry Toscan è un francese, della zona dell’Alsazia/Lorena, che si è trasferito circa venti anni fa in Italia, sulle
colline trevigiane, per fare della sua grande passione, il cinema, una professione. Ha iniziato come operatore per registi
come Olmi, Pozzi, collaborando anche per noti programmi televisivi (ad esempio il
Chi l’ha visto? della Raffai.
Oggi, anche grazie all’esperienza de
Il vento fa il suo giro, ha scelto il mestiere dell’attore come sua attività
principale; ed ha appena ultimato le riprese dell’ultimo lavoro di Carlo Lizzani, che verrà probabilmente presentato al
festival di Venezia.
Che cosa ha rappresentato per te l’esperienza de Il vento fa il suo giro?
Un momento molto duro e pesante ma, allo stesso tempo, ricco e decisivo della mia vita. Per un anno tutta la mia persona e
tutte le mie energie si sono riversate su questo progetto. Non è stato facile... lavorare per un anno intero lontano da
casa (fatta eccezione per quelle tre o quattro settimane di “stacco” tra un cambio di stagione e l’altro), in un posto
come la montagna, che, in precedenza non avevo mai amato, senza la possibilità di vedere altra gente e fare altre cose per
non “perdere” il personaggio di Philippe nel quale ero faticosamente entrato, senza poter ingrassare nè dimagrire;
lavorare, inoltre, in un progetto completamente autoprodotto, per il quale sto ancora finendo di pagare i debiti
accumulati... Passare, inoltre, un anno con Alessandra (Alessandra Agosti, la moglie di Philippe nel film - ndr) e con i
bimbi che interpretavano la parte dei miei figli nel film come se fossimo una famiglia “vera”, e poi, al termine delle
riprese, constatare che tutto era finito e vedere sciogliersi lentamente i legami affettivi che si erano creati... non è
stato certo facile. Un progetto, però, che ha mi ha definitivamente indirizzato verso il mestiere di attore, non
interrompendo ma mettendo in secondo piano tutte mie altre attività.
Cosa ti ha fatto accettare un progetto tanto impegnativo? E che cosa ti ha convinto a non mollare nonostante le
difficoltà?
Il film doveva avere come attore protagonista Gerad Depardieu. Alla fine Giorgio (Diritti) ha scelto me per via della
conoscenza reciproca e dell’amicizia, e anche per il fatto che costavo la metà! Ho portato a termine il lavoro perchè,
nonostante le difficoltà, sentivo che era un progetto che avrebbe inciso fortemente nella via vita, non solo in senso
artistico. Ma la cosa che, forse, mi ha convinto a rimanere, oltre alla parola data, è racchiusa in quanto vi sto per
raccontare: “l’intera troupe del film alloggiava in una ex colonia montana, a quaranta chilometri di tornanti dal primo
centro abitato. Si viveva in totale autogestione stabilendo persino dei turni per chi doveva preparare la cena. Nel tempo
libero, per vincere l’inattività forzata, ho affrescato tutte le pareti della mia stanza. Ma la sera... Alessandra
(Agosti) che, prima che attrice è una straordinaria musicista, si era fatta portare in colonia un pianoforte; durante le
serate si sedeva e incominciava a suonare... la melodia del pianoforte, la bravura di Alessandra, quelle melodie avvolte
da quel silenzio saturo che solo la montagna può offrire... ecco, è stato questo a darmi la forza di andare fino in
fondo!”
Nel film Philippe recita una frase che mi ha molto colpito e che ritengo sia centrale: «A me la parola tolleranza non
piace. Se tu devi tollerare qualcuno non c’è il senso di uguaglianza».
Nel film è centrale il tema del rapporto con il “diverso”. Si vogliono raccontare le dinamiche che si scatenano
nell’incontro tra uno “straniero” e la comunità locale, come il piano dei rapporti tenda ad inclinarsi sempre di più, la
fatica nel comprendere e superare, reciprocamente, le barriere culturali... non si è voluto stabilire chi avesse ragione e
chi torto; ma semplicemente descrivere la storia di un incontro tra due “diversità. Nella maniera più trasparente e
credibile possibile. Una storia che, pur prendendo spunto da fatti realmente accaduti, deve essere intesa in senso
universale e non legata esclusivamente al contesto delle comunità montane. Anche per me vent’anni fa è stata molto dura
farmi accettare dagli abitanti del paese italiano nel quale vivo tutt’oggi. Anzi posso dire che solo ora, a distanza di
vent’anni, la gente del posto ha cominciato ad accettarmi realmente. E tutto ciò nasce dall’ipocrisia nei rapporti e, per
l’appunto, dalla mancanza del comune senso di uguaglianza.
Un grazie di cuore a Thierry, per tutto quello che è stato capace di insegnarci!