Trovo difficile capire dove voleva andare a parare Bellocchio con il suo apologo che vede protagonista un regista in crisi,
che accetta di filmare il matrimonio della figlia di un nobile siciliano, di cui si innamora. Il racconto è condotto con un
impasto di toni che in cui si mescolano realismo e onirismo, autobiografia (forse) e fiaba, grottesco e vis polemica. Se il
racconto procede a tentoni tra linee narrative tratteggiate ma mai completate (la verità sulle accuse al regista, la
spiegazione della sua fuga, il rapporto con la futura sposa, il finale ambiguo, le sottovicende del fotografo e del regista
finto-morto, ecc.), anche gli spunti polemici appaiono di dubbia interpretazione ed efficacia, sia quando si rivolge ai
riti della religione cattolica sia quando prende come bersaglio una pretesa “dittatura dei morti” in Italia, a causa della
quale un collega regista si finge morto per poter essere premiato ad un festival (non può non tornare alla mente la poco
simpatica polemica che accompagnò la mancata premiazione di
Buongiorno, notte alla Mostra internazionale del cinema
di Venezia). Intendiamoci, l’ambiguità non è un difetto; ma quella de
Il regista mi sembra poco stimolante e feconda.
MAURO CARON