“Un film che parla dell’orgoglio che acceca un uomo e un intero paese che pensa di sapere cos’è giusto e cos’è sbagliato.
Un film che racconta della strada che dalla cecità porta alla luce”. Così Paul Haggis ha introdotto il suo ultimo film
Nella Valle di Elah. Vincitore di due premi Oscar lo scorso anno per
Crash, sceneggiatore acclamato per
Eastwood, Haggis è giunto a Milano per presentare il suo ultimo film e con la complicità di Maurizio Porro, ha spiegato al
numeroso pubblico accorso presso la sala dell’Anteo Spazio Cinema le traversie del film. “È un film politicamente difficile
da fare in America in questo periodo”, ha raccontato il regista, “è stato difficile trovare finanziamenti, trovare studios
che fossero disposti a finanziarlo. Ho letto l’articolo di Mark Boel, che ha ispirato il film, tra il 2003 e il 2004. Era
un periodo particolare, c’erano bandiere americane che sventolavano dalle antenne di ogni automobile e adesivi con su
scritto ‘Sostenete le nostre truppe’ attaccate ad ogni parafango”.
Com’è stato accolto il film in America?
La forma del film è difficile per gli Americani. Il film all’inizio finge di essere un normale film di genere, cioè un
giallo con omicidio. È un trucco, vuole che gli spettatori si rilassino, stiano tranquilli, in fondo è solo un giallo,
giusto? Ma ecco che appena il pubblico si è rilassato il film cambia e diventa un giallo morale. Ritorco il giallo contro
di loro. La verità, il buono e il cattivo si confondono. Gli indizi e le soluzioni diventano molteplici.
Perché non fare un film scopertamente anti-Bush?
Non volevo infiammare gli animi. Ma poi, soprattutto, perché Bush è un bersaglio troppo facile. Volevo mostrare come le
responsabilità fossero di noi Americani e smetterla di dire che a compiere gesti orribili sono ‘solo poche persone’. Per
esempio: quando furono scoperte le torture di Abu Ghraib tutti si affrettarono a dire che erano state ‘solo poche persone
cattive’. Non è vero, sono buone persone che sono andate a combattere per un ideale patriottico. Sono partito per
raccontare una storia di quello che sono gli Stati Uniti, del perché creano una guerra dietro l’altra. Mi sono ispirato
alla storia di Davide e Golia che raccontiamo ai figli per ispirarli ad essere come Davide. E loro partono per dimostrare
di essere eroi come Davide e si trovano, invece, ad uccidere civili, donne e bambini. Diventano dei Golia.
I film è molto ben scritto e diretto, come concili scrittura e regia?
Dici che è molto ben scritto e diretto perché sei italiano. Noi esaminiamo l’intero processo, non ogni singolo componente.
È difficile comunque chiarire il rapporto fra queste due cose. Meno dialogo c’è e più fiducia si ha negli attori nelle
scene senza dialogo, meglio viene il film. Ho scelto questi attori perché sono in grado di esprimersi nel silenzio. Ho
permesso loro di improvvisare molto poi, soprattutto Susan che è bravissima quando improvvisa.
Hai offerto la parte di Tommy Lee Jones a Clint Eastwood….
No. In realtà Clint Eastwood è stato il protettore di questo film. Per circa sette e otto mesi ho cercato un produttore, ma
nessuno voleva e allora ho chiamato Clint, perché io posso fare questo, chiamarlo e chiedergli aiuto. Ma era troppo anziano
per questo ruolo ed è stato lui il primo a dirmelo. Mi ha detto: “Sono un attore in pensione, sono tornato a recitare per
Million Dollar Baby, ma non potete chiedermi di più.”
Come sono Tommy Lee Jones e Charliza Teron sul set?
Loro hanno deciso immediatamente di fare questo film. Poi ogni attore ha bisogno di qualcosa di diverso. Tommy Lee è molto
cerebrale, abbiamo avuto lunghe discussioni su come il personaggio sarebbe stato. La sceneggiatura gli è piaciuta subito,
ma non il personaggio, pensava che fosse uno stupido e voleva interpretarlo così. Io ero assolutamente contrario, finché
alla fine sono riuscito a fargli capire che è un uomo accecato dall’orgoglio. Charlize Teron, invece, lavora in modo
diverso. Non fa prove, arriva sul set fresca. Appena ha capito com’è il personaggio lei non ha bisogno di altro, appena
c’è il ciak lei si trasforma e diventa il personaggio.
Ci racconti il suo rapporto con Clint Eastwood: soprattutto avete dovuto perdonarvi le vostre rispettive appartenenze
politiche?
In realtà non abbiamo dovuto perdonarci un granché. Se una cosa gli piace l’accetta senza discutere. Io avevo scritto la
storia di
Million Dollar Baby e avevo pensato anche al cast e l’unica cosa che lui ha detto è stata: “Bella idea”.
Al che io gli ho detto: “Clint, hai qualche idea?”, e lui ha risposto: “No, la sceneggiatura mi piace.” E così è stato per
Flags of our father e
Letters from Iwo Jima. Una volta che si è convinto, sostiene fino alla fine il suo
regista. E poi, come molti repubblicani, lui ha un’idea precisa di quello che ha corrotto il questo mondo.
La reazione del pubblico qual è stata? Si dice che il film sia andato meglio negli Stati che hanno maggiori volontari
al fronte.
Si è vero. È andato meglio in quegli stati dove i figli sono in guerra. Il film l’ho fatto per loro. Uno non fa i film per
compiacersi del risultato o per vantarsi con gli amici, ma perché piaccia a chi la pensa diversamente. Infatti il film è
piaciuto molto negli ambienti militari, ai reduci, alle famiglie dei marines di stanza in Iraq. Quello che mi ha colpito
di più sono state le reazioni dei reduci e delle famiglie dei marines. Prima dell’uscita ho mostrato il film a molti di
loro. A Washington molti reduci alla fine della proiezione si sono alzati per parlare e una signora ha detto che era stato
molto difficile da vedere perché suo marito si era suicidato dopo essere tornato dall’Iraq. Un’altra signora mi ha
confidato che lei aveva dovuto lasciare la sala: suo figlio si era impiccato due settimane dopo essere tornato dall’Iraq.
Un’altra donna, il cui marito era stato in Iraq, mi ha confidato che, come la donna del film, aveva avuto paura di lui,
dell’uomo che amava, per due settimane dopo che lui era tornato dall’Iraq e che poi il marito si era suicidato. Tre donne,
in meno di sette minuti, che non si conoscevano. Questo è un segnale.
L’Iraq è considerato il nuovo Vietnam, ma ci sono meno film che raccontano questa guerra, come mai?
Ora è più difficile. I film sul Vietnam sono stati girati dopo la fine della guerra, era un guardarsi indietro, c’era una
maggiore distanza. Oggi è più difficile in America. Non ricordo per l’Italia, ma ho fatto questo genere di incontri anche
in Francia. Io adoro i Francesi, ma loro adorano sentirsi superiori. E quindi parlavano del film con questo loro
atteggiamento superiore e dicevano che loro non avrebbero mai censurato un film così. E io ho fatto presente che c’è stato
un film di Max Ophuls che non era stato digerito nel loro paese per cinque anni e
La Battaglia di Algeri pure. È
più difficile guardare i propri peccati piuttosto che quelli degli altri.
Come si può aiutare l’America?
Io amo l’America e credo di essere un patriota, ma non riconosco più il mio paese. Il nostro Presidente eleva la tortura a
politica. Di fronte a questa dichiarazione siamo tutti rimasti a bocca aperta. Abbiamo biasimato la tortura durante la
Seconda Guerra Mondiale, e ora anche noi torturiamo anche se lo chiamiamo con un altro nome. Io credo che chiederemo aiuto
solo quando saremo in ginocchio, ma io non voglio vedere il mio paese in ginocchio. Non è solo un problema americano, ma
di tutta l’umanità che quando ha il potere tende ad abusarne. Ora l’America ha un grande potere, ma se la Storia non mi
inganna una volta anche l’Italia ha avuto un grande potere. Io credo che la soluzione sia la compassione.