Corpse fiction
“Per me all’inizio c’è il corpo. E’ ciò che siamo, ciò che abbiamo. Siamo tutti come degli attori che si aggirano sulla
scena della vita e la prima cosa che abbiamo sono i nostri corpi fisici, la nostra esistenza fisica. Nei miei film il corpo
è sempre al centro. Gli giro intorno come fa un pianeta col sole. Non me ne allontano mai. E se ciò accade, più me ne
allontano, meno mi sento sicuro di sicuro. Come se diminuisse la gravità” (
Cahiers du Cinema, n. 453). Non sono
parole di Quentin Tarantino queste, ma di David Cronenberg, maestro del cyborgsex o anche del corpse-machine. Due
concezioni non solo dell’arte ma anche della vita come la dichiarazione del regista di
Crash (un film assoluto in
questo senso) tende a sottolineare. Non sono parole di QT ma lo sembrano, soprattutto o, forse, ancor di più, dopo la
visione/esperienza di Death Proof – A prova di morte, ultima celebrazione cinecorporale del maestro del
pulp, che
qui, più che altrove, declina il proprio sguardo verso una direzione
pop che a tratti sfiora o si strofina con il
fetish e il perverso. Death Proof è la testimonianza di un cinema che vuole costantemente ritornare al corpo, al cinema, al
desiderio di fondere immagine-godimento-intrattenimento e significato. Ma il gusto dell’immagine e per l’immagine nel
cinema di QT insegue, da sempre, i movimenti dei corpi delle sue donne. L’immagine diventa pelle. Il montaggio scheletro.
La musica il contorno.
In
Le iene (Reservoir Dogs, 1992), il desiderio fisico/corporeo è enunciato nelle battute iniziali da Tarantino
stesso (Mr.Brown) mentre spiega ai compagni in giacca e cravatta il testo della canzone
Like a virgin di Madonna.
Un enunciato che prende la forma di un contratto che lo spettatore firma con il film. Sembra dirci: “preparati a questo”.
E nonostante questo, l’immagine implode di gusto e desiderio tra piombo e sangue. In
Pulp Fiction (id., 1994), il
corpo si riforma attraverso lo spazio e il tempo della narrazione. Un procedimento che lascia a bocca aperta perché
l’occhio e soprattutto la mente non si aspettano più certi ritorni. E invece il killer Vincent Vega resuscita, rinasce,
risorge dopo essere morto nel cesso della casa del pugile Butch. E Jules grida al miracolo (anche se in quel momento si
riferisce alla sua sopravvivenza). Questo “ingranaggio salvifico” è sfruttato pure da Mia Wallace, dopo l’iniezione
d’adrenalina e dallo stesso Butch prima dell’incontro truccato, quando si sveglia da un “sonno” metaforico. Il corpo si
spezza, si ricompone, si stacca dall’anima e risorge anche in
Kill Bill. Da un punto di vista concettuale, la
resurrezione della Sposa è clamorosa: dopo gli anni di coma e morte apparente, il risveglio la conduce alla vendetta. Ma
dal punto di vista corporeo, corporale, corpologico, lo è ancora di più: sepolta viva Black Mamba risorge definitivamente
dalla terra. Sono solo alcuni esempi di come corpo, morte e vita si intreccino di continuo nel cinema di QT.
A prova di morte
“Ogni volta che in film io uccido qualcuno, si tratta veramente della ripetizione della mia morte”. (in
L’horreur
interieure), diceva ancora Cronenberg. E per QT è lo stesso. Quante volte assistiamo alla devastazione di corpi in
Death Proof durante la scena della carneficina progettata da Stuntman Mike? Quanti punti di vista incrociamo? Quante morti
osserviamo? QT perfora e invade la morte con il suo sguardo e ci conduce dentro gli spazi più profondi e intimi della
separazione tra anima e corpo. E’ una contaminazione di sesso e lamiere nella quale siamo costretti a rafforzare lo sguardo
per seguire il senso. Una rappresentazione corale della morte, soggettiva e personale, dal punto di vista oggettivo di chi
guarda. Cioè noi. Gli spettatori, assoluti protagonisti di un cinema fatto a misura per noi. Ecco perché il pulp si declina
in pop. Ecco perché il
blood non spaventa più ma spinge in una dimensione nuova e alternativa della finzione
cinematografica. Una finzione costruita non solo su citazioni e
b-movie, ma soprattutto sulla voglia di degustare
l’immagine e di passare il tempo in quella dimensione così esclusiva e tragicamente provocante, possessiva e seducente.
Stuntman Mike, ultima esaltazione di questa realtà alternativa è il nuovo prototipo tarantiniano. Un prototipo esaltato e
scriteriato con la mente e il corpo deviati, risultato dei prototipi tarantiniani. Il Kurt Russell di Death Proof è la
simbiosi tra Mia Wallace in stato di overdose, l’assatanato-svampito Luis Gara (Robert De Niro) di Jackie Brown e il
karma-carogna Bud (Michael Madsen) di Kill Bill. Un morto vivente. Chi più di lui ha vissuto l’emozione dell’ultima volta?
Chi oltre a lui può sostenere la morte e sfidarla di continuo? Ovviamente ed esclusivamente solo chi potrà sconfiggerlo,
cioè Kim, Abernathy e Zoe.
Sexy proof
“Mi interessano molto i documentari sull’interno dei corpi. Mi sembra strano che quando si apre un corpo umano per la
maggior parte delle persone sia ripugnante. Perché? Siete voi, sono io! Come potete trovare ripugnante il vostro stesso
corpo? E’ ciò che voi siete! Abbiamo bisogno di una nuova estetica per l’interno dei corpi. Quando si trova bella una
donna, non si pensa che alla sua superficie… ma se la si rigirasse come un guanto, tutto il mondo sarebbe disgustato. E’
bizzarro. Non siamo ancora capaci di accettarci nella nostra globalità”. Ancora Cronenberg e ancora molte anologie con QT.
Oltre al gusto per l’immagine, quello di QT è un vero e proprio gusto per il corpo-donna, fatto e rifatto in molteplici
forme, ad ogni film. La stessa Daryl Hannah in
Kill Bill si fa portatrice di uno sguardo condizionato dalla
sofferenza e dalla mancanza di un parte fondamentale: l’occhio. Privazione ma anche esaltazione di una donna bellissima e
spietata. L’apologia corporea persiste attraverso le inquadrature morbide e sinuose dei piedi, dei dettagli sulle labbra,
dei riflessi degli sguardi. QT costruisce film che odorano e puzzano come i vestiti dei suoi personaggi, come il cibo
mangiato dai suoi personaggi, come le cornette o i telefonini utilizzati sempre per comunicare. E poi il fumo di sigaretta,
l’alcool, il piombo, il sangue, le zone invalicabili e i confini dell’esistenza. Anche Death Proof strizza l’occhiolino a
tutto ciò, amplificando molte di queste ossessioni e insistendo sull’intuizione più disorientante di tutto il cinema di QT:
il dialogo. Grottesco, farsesco, comico, volgare e pretestuoso, il dialogo assume tutte le forme dell’intrattenimento puro
nel cinema di Tarantino anche grazie all’imamgine. In Death Proof c’è una sequenza interamente ispirata a
Le Iene,
quando le ragazze ascoltano Abernathy in un bar. L’aspetto fondamentale e curioso della sequenza non è solo il dialogo
della ragazza. Non è solo il pianosequenza che imbriglia le ragazze al tavolo con davanti l’ordinazione. Il tassello
fondamentale è rappresentato da Stuntman Mike in profondità di campo che con la coda dell’occhio segue le ragazze, sue
prossime prede. E’ quindi lo shock dell’immagine a dare un senso completo ai dialoghi, in apparenza fuorvianti, ma
assolutamente complici della più astuta suspense.
Frazioni flessibili (ma costrette)
Resta, nonostante tutto, la sensazione di aver perso qualcosa dopo la visione di Death Proof. Forse, addirittura, di aver
perso l’idea originale di Tarantino e Rodriguez di girare Grindhouse come l’avevano pensato loro, cioè montando in
successione due film intervallati da fantomatici trailers, come si faceva una volta al drive-in. Luogo per eccellenza pop,
sexy, pulp. Ma anche le idee migliori (o presunte tali) passano obbligatoriamente sotto lo sguardo cinico e inflessibile
del Diodenaro. E così, in Italia, vista la “delusione” al botteghino Usa, il film non solo è stato spezzato in due parti,
ma anche allungato e dilatato per restare nei tempi distrubutivi. Da qui, forse, si possono individuare i difetti di un
film a tutti gli effetti “a prova di morte”, che resiste nonostante tutto e nonostante i difetti. Non si sa ancora cosa
accadrà del film di Rodriguez, Planet of horror. Dai trailers si intuisce la solita visionarietà geniale, ma questo ai
botteghini italiani, potrebbe non bastare.