FUORISCHERMO

 

IL RACCONTO POPOLARE
DI GIORNI E NUVOLE
Soldini racconta un dramma contemporaneo
dove la coppia è costretta a riscoprirsi, rivalorizzarsi, incontrarsi nuovamente.
Dove lo sfondo è Genova, con il suo mare e il suo cielo,
con la luce dei tramonti e l’ombra delle nuvole.
Un film coerente, onesto e fatto per la gente.
Giorni e nuvole Michele ha appena voltato lo sguardo. In coda, al semaforo, attende il verde come forse mai gli era capitato. Il punto di ripartenza, un segno di salvezza e di speranza. Lui che dice di averla sempre avuta, la speranza. Ora spera di non essere visto. Vuole fare lo spettatore: vuole vedere, ma non vuole essere visto da sua figlia. Che è nella macchina alla sua sinistra: seduta al fianco del suo ragazzo che guida e che vive con lei. Michele vuole essere uno spettatore per nascondersi dalla spettatrice della sua esistenza, cioè sua figlia, quella a cui ha sempre voluto fare da esempio, che invece lo riconosce dal finestrino dell’auto nonostante il casco, il motorino, l’abbigliamento da corriere. Lui che si è sempre messo la cravatta e che guadagnava molto denaro. Lui che diventa spettatore e spettacolo. Lei che diventa spettatrice involontaria e afflitta. Il verde arriva ma troppo tardi. Le auto partono, scorrono, vanno avanti. Michele no. Resta fermo. Guarda avanti, oltre, ma non vede più nulla. Lo spettacolo è finito. Si sposta. Tutti si muovono, lui no.
Tra le sequenze più significative di Giorni e nuvole assume un valore particolare quella appena citata, perché dichiara esplicitamente uno degli aspetti più interessanti dell’intero film di Soldini: l’importanza dello sguardo intimo, cioè quello della comunicazione familiare, della distanza relazionale. L’intero film, infatti, comunica il desiderio di penetrare nella vita, nel quotidiano, di Michele e Elga. Il film di Soldini è costruito sull’incomunicabilità della coppia. Anzi, sulla comunicazione scorretta all’interno della coppia. Il rapido declino della stabilità (economica, affettiva e relazionale) è fondato sul principio dell’apparenza, del “non ti preoccupare”, del “tanto andrà tutto a posto”. Proprio in questa serie di atteggiamenti, di apparenze, mezze verità e conseguenti mezze bugie, s’instaura una dinamica relazionale nuova, più debole, meno partecipata. Si assiste al declino della coppia che non prova più passione per l’altro, non guarda più l’altro, non lo cerca, non lo aspetta, non gli parla. Da una parte Michele si investe del ruolo di capofamiglia imperturbabile e risolviguai; dall’altra parte Elsa assume il ruolo della spaventata e rammaricata. Il film, però, poi, farà vedere altro. Lui viene investito dalla paura, dall’ansia di uscire, dal terrore di sostenere un nuovo giorno senza essere produttivo e utile agli altri. Lei abbandona la passione per l’arte (l’ultima che le era rimasta) si butta nel vortice urbano del lavoro, sdoppiandosi in due ruoli: centralinista e segretaria. Lui a casa sente il peso di tutto quello che osserva; lei non osserva più niente ed entra in contatto con gli sconosciuti, paradossalmente in un vortice comunicativo inaspettato e indigesto. Non assimilabile.
Giorni e nuvole Un film che pare destinato a raccontare le distanze relazionali fin dall’incipit, dove una panoramica di Genova (successivamente altre inquadrature di Genova, del suo mare, del suo cielo, delle sue strade che sembrano vene, dei suoi palazzi che sembrano corpi gettati a terra, della sua luce e della sua ombra) mostra quanto sia determinante la distanza comunicativa tra due persone, che siano marito e moglie, padre e figlia, amici o colleghi di lavoro. Il film è un campionario di relazioni, più o meno approfondite, nelle quali Soldini prova con decisione a valorizzarne il ruolo senza mai dimenticare che è indispensabile non rimanere da soli, soprattutto, non pensare da soli. Eppure le cose non si mettono come ci si può augurare. Si attende un po’ di sereno nel cielo di Genova, e invece, niente. Solo nuvole e giorni che passano. Tutto cambia, tutto si trasforma. Così vuole la natura ma non le persone. Eppure il film è costruito sui cambiamenti, voluti o inaspettati, sul principio di sopravvivenza e sul desiderio del contare ancora qualcosa per gli altri. Per l’altro o per l’altra. Giorni e nuvole declina nuovamente il senso dello smarrimento nel cinema di Soldini, che sembra assumere un significativo fondamentale per comprendere il lavoro di questo regista. Questa volta non si assiste ad un vero e proprio viaggio, ad un passaggio, cioè, da un posto ad un altro, da un corpo ad un altro. La città resta sempre la stessa (Genova era già stata ‘toccata’ da Agata e la tempesta), pesante e pressante, chiusa e senza varchi, liquida e rarefatta, lì in movimento, a guardare, come uno spettatore. Eppure, nonostante la fissità del luogo, si continua ad entrare ed uscire dalle porte; si entra e si esce dalle case, dai ristoranti, dalle auto, pure, perfino, dalla vita delle persone. Come capita a Michele e Elga che presi dallo sconforto, dal disagio, si isolano dalle amicizie e quasi rifiutano la presenza di una figlia ‘realizzata’. Un legame indubbiamente forte, ma che fa nascere uno scontro causato dal cambio dei ruoli: le figure responsabili per antonomasia si trovano, da un momento all’altro, nei panni di quelli che vanno aiutati, sostenuti, indirizzati. Un cambiamento di prospettive con il quale né Michele, né Elga riescono a convivere. Giorni e nuvole Di fatto, quindi, un film che racconta l’uscita da un corpo e l’entrata in un altro corpo. Anzi. Un film che racconta un cambio di prospettiva attraverso l’uscita da uno sguardo e l’entrata in un altro sguardo.
Il film di Soldini indaga, costruisce, distrugge e poi ricostruisce. Da una casa all’altra, da un lavoro all’altro, da un’umiliazione all’altra. La macchina da presa non smette mai di inseguire i volti dei personaggi, non stacca mai lo sguardo dai semplici gesti o dai dettagli. Il movimento è rapido, inaspettato. Uno stile che induce lo spettatore del film a cercare un motivo, una direzione, una coerenza che sembra rintracciare anche nei personaggi di Margherita Buy e Antonio Albanese che sembrano un po’ vittime e carnefici di sé stessi. Due figure riconducibili ad un personaggio che vive nella paura e nella consapevolezza di chi sa di aver sempre sottovalutato o evitato certe questioni, che ora mette in discussione tutto e prova a risolvere le cose come può. Però, il suo ‘come posso’ è il tentativo più disperato che presto si tramuta in un rifiuto delle passioni. La scelta di abbandonare l’arte da parte di Elga va letta in parallelo con la scelta di abbandonare, in pratica, anche Michele. Una scissione che si concretizza definitivamente e lentamente. In quel preciso momento il film di Soldini raggiunge il punto più basso. Fin dall’inizio scopriamo in Margherita Buy l’ignoranza di chi ha sempre scelto di ‘stare fuori certe cose’, di chi ha sempre trovato tutto pronto, dal vedere e guardare, all’osservare e toccare. Scatta nella spettatrice Elga, quindi, di conseguenza nello spettatore in sala, una complicità di sguardi che porta un po’ di serenità all’intero film, perché ormai la parte ‘scissa’ rappresentata da Michele è quella più pessimista, arrabiata, sconfitta. Un equilibrio che sembra ristabilirsi proprio nell’ultima sequenza quando Michele e Elga sono insieme nella stessa stanza a guardare.
Giorni e nuvole Ora il film sta per chiudersi. Si respira un’atmosfera diversa, c’è meno tensione. Il dramma contemporaneo è già stato raccontato e vissuto. Soldini ha praticamente detto tutto e quasi troppo. Michele e Elga sono vicini. Si guardano negli occhi oppure guardano nella stessa direzione?
Un finale interessante, coraggioso e onesto che mostra definitivamente l’intenzione di Soldini, che qui, in questo preciso momento, chiude anche il cerchio che aveva aperto nell’incipit, quando raccontava le atmosfere di un paesaggio urbano. Poco importa se ora si tratta soprattutto di un paesaggio umano. Ora lo sguardo del regista è fisso sui due protagonisti attivi nella loro ricerca. Nessuna risposta. Nessuna domanda. Dopo tante parole, lo sguardo torna a comunicare.