Aria gelida in casa Hervey, e ci si stupisce come la Huppert riesca a stare lì con il pube all’aria. Chereau costruisce un
prologo sociale al cospetto del bel mondo per poi lasciare soli i protagonisti a scannarsi verbalmente nella guerra (come
proseguimento della politica con altri mezzi) del potere e del disamore, tra l’incomprensibilità del desiderio e la non
assoggettabilità dell’amore. Maschi contro maschi, maschi contro femmine, padrone contro serve: i rapporti sociali e
quelli sentimentali sono, al nocciolo, fassbinderianamente, rapporti di potere. Oscillando tra colore e bianco e nero, tra
parola parlata e scritta, Chereau compone un kammerspiel crudele che dovrebbe ardere di un fuoco freddo (e non sempre ci
riesce). Nessuna interprete poteva essere migliore di Isabelle “la pianista” Huppert, distante, inafferrabile, che trionfa
(e si danna) facendosi forte di una passività invincibile.
MAURO CARON
Ma chi glielo ha fatto fare a Patrice Chéreau, dopo lo scabro
Intimacy, di infilarsi nel vicolo cieco di uno psicodramma
matrimoniale nell'alta società parigina d'inizio Novecento? Jean (Pascal Greggory), illustre e stimato editore, deve
affrontare lo scandalo provocato dalla moglie Gabrielle (un'intensa Isabelle Huppert premiata a Venezia), che dopo anni
d'irreprensibile rapporto decide che è ora di dire la verità sulla loro ipocrisia sentimentale. Tutto girato in interni,
con frequenti (e non sempre motivati) andirivieni tra bianco/nero e colore, il film, nonostante qualche tentativo
d'infrazione alle regole del romanzone tardo ottocentesco (i chiaroscuri, i tagli sghembi dell'inquadratura, le
"aggressioni" musicali della colonna sonora) si stiracchia per un'oretta e mezza, non trovando il bandolo della matessa di
una storia un po' verbosa che non riesce a scaldare il cuore del nostro presente.
MASSIMO ZANICHELLI