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Titolo originale: Funny Games
Regia: Michael Hanekek
Sceneggiatura: Michael Haneke
Montaggio: Monika Willi
Musica:
Fotografia: Darius Khondji
Interpreti principali: Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt, Brady Corbet, Evon Gearhart
Origine : Usa / Gran Bretagna / Francia, 2007
Durata: 103'
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La vita e la morte di una famiglia borghese si schiantano con l’arrivo di due sconosciuti che iniziano un perverso gioco al massacro. Michael Haneke rifà se stesso dodici anni dopo l’insuccesso commerciale (statunitense) del primo Funny Games, ricalcando con precisione le atmosfere e le intenzioni di quella magnifica, destabilizzante prima volta. Haneke ridefinisce così la violenza dello spazio intimo o, forse, la perdita dell’intimità. Lo fa sfruttando i codici cinematografici dell’horror, del thriller e del farsesco, senza mai tradire la tensione, senza mai abbassare il ritmo. Eppure le inquadrature sono infinite, i movimenti di macchina lenti, le torture e le uccisioni fuori campo, il finale atteso ma scontato. La grandezza di questo film è tutta racchiusa nelle contraddizioni che, di fatto, costituiscono il nucleo centrale dell’intera vicenda. Non serve spiegare i motivi della violenza, non serve teorizzare una possibile chiave di lettura su ciò che ha spinto Paul e Peter ad essere fatti così. Haneke non spiega, mette tutto in gioco. Sono le immagini a comunicare, a relazionarsi con lo spettatore. Sono le immagini ad infastidire, inseguire e spingere lo spettatore. Che, volgarmente, forse aspetta un gesto che spezza la tensione, come un proiettile dentro un torace o una lama dentro una gamba e invece niente. Haneke insegue la correttezza dello sguardo. Haneke vuole l’etica dello sguardo. Si diverte perché veste i panni del burattinaio. Dirige, comanda, detta le regole. Proprio come i suoi due angeli della morte. Parla con il pubblico, conduce, offre ricchi premi e cambia addirittura canale quando gli fa comodo. Non poteva essere altrimenti. Non potevano farlo altri.
DAZEROADIECI:: 8
MATTEO MAZZA
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A Peter e Paul piace semplicemente «giocare» con le famiglie di cui sono ospiti. Haneke riplasma il film del 97 per il pubblico di Hollywood: stesse inquadrature e sceneggiatura ma nuovi attori e atmosfere. Si diverte, giocando con sguardi, sorrisi, parole da metafilm, chiedendoci se «può bastare?» ciò che osserviamo (visto che ogni spettatore «vuole un finale vero..no?»), disorientandoci fino al dubbio se ciò che vediamo è veramente reale, solo per il fatto che l’abbiamo, sullo schermo, davanti a noi. Le tinte bianche, accentuate rispetto al primo film, sulle pareti della casa, negli occhi dolci di Paul, accentuano ancor di più il contrasto di un’intimità familiare brutalmente storpiata da un incubo straniato che diventa realtà (..o forse no?..), per raggiungere l’obbiettivo di violentare lo spettatore, facendogli raggiungere un indipendenza da ogni opinione mediatica o stereotipata. La musica, disturbata da urli Hard Rock, serve solo se crea "fastidio" e si alterna a lunghi silenzi tempestati di rumori quotidiani, paradossalmente accostati all’esperienza terrificante dei protagonisti. L’omicidio rimane fuoricampo, alluso da poche gocce di sangue schizzate su di un televisore, che troppo spesso produce violenza commerciale senza motivo, in un certo cinema, per Haneke «non serio». Le interpretazioni di Roth e Pitt possono solo migliorare la tensione del primo film, in un una nuova fastidiosa creazione.
DAZEROADIECI:: 8
ANDREA GUETTA
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