In this great future, you can't forget your past
So dry your tears, I seh
No woman no cry,
No woman no cry.
(Bob Marley, No Woman no cry, 1974)
Donne dentro la memoria di sé stesse, alla ricerca di uno spiraglio di senso, di commozione, di smarrimento per saldare il debito col passato, che torna sempre e non cessa mai di esistere. Donne sotto la
luce del mondo, esposte, scottate, bruciate, attaccate, ferite, fragili e in movimento perpetuo, per dare prova della propria esistenza, per dare forma al proprio corpo di figlie e madri. Donne in
contrasto, allucinate, deviate, sconvolte, alterate. Donne in viaggio e donne in fuga.
Da Christine Collins (Angelina Jolie) realmente esistita nella storia dell’America raccontata da Eastwood, alla duplice Sylvia/Mariana (Charlize Theron) protagonista del film di Arriaga fino alla
complessità vitale di Kym, sorella di Rachel (che si deve sposare), nel film di Demme. Tre donne così diverse in tre film così diversi e lontani ma così carichi e significativi che proiettano lo spettatore
in universo di senso in cui le tre forme filmiche coincidono con la rappresentazione della figura/forma femminile.
Il giocodrama ad incastri creato da Guillermo Arriaga, sceneggiatore divenuto famoso più per la collaborazione con Inarritu (
Amores perros, 21 grammi, Babel) che per il proprio curioso e originale
percorso creativo, è speculare al profilo spezzato di Sylvia, la donna che in passato è stata Mariana.
The burning plain si sviluppa su diversi stratagemmi narrativi e definisce il corpo e il senso
della figura femminile attraverso tre donne: Gina e sua figlia Mariana, Sylvia e sua figlia Maria. Sono tre protagoniste che azionano tre universi paralleli. Il giocodrama di Arriaga serve per ricostruire
il significato della vita e dell’esistere di queste tre donne in relazione al tempo e allo spazio. Tutte e tre si relazionano con la morte in modi diversi ma è significativo che nel cuore e nella mente di
Sylvia/Mariana, che si rivela in fretta l’epicentro narrativo, le due figure escluse dalla sua vita continuino ad esistere sotto la forma devastante del senso di colpa. Arriaga è artista sensoriale perché
punta lo sguardo su ciò che provano i suoi protagonisti. La donna vive un rapporto di simbiosi tra paura e tempo, nascita e morte, spazio e fuga. Il cinema di Arriaga (sceneggiatore e regista) definisce la
distanza umana (fisica e spirituale) dal senso. Pur condividendo con i personaggi degli altri film fattori destabilizzanti come il destino e il dolore, è forse il caso di notare che, per Arriaga, il
confronto con gli elementi naturali non è un valore a sé, in quanto rivela la natura delle persone che lo vivono.
Sono significativi i luoghi. La pianura del film brucia nella relazione clandestina che esplode di sentimento, pulsioni, fisicità. Il ristorante è gelido come le coste minacciose e il mare in burrasca dove
Sylvia medita un gesto estremo o una punizione infinita e dove il suo corpo nudo esce freddo e distante e in silenzio dal letto in cui ha trascorso l’ennesima notte “purificatrice”. Il cielo è il luogo
della libertà, della leggerezza. Arriaga supera i confini del melodramma e fonde gli estremi del romanticismo e della tragedia creando un nuovo genere nel quale solo i suoi personaggi possono vivere. È un
mondo fatto di incastri, ritorni, rimandi e ripetizioni, dove gli elementi naturali trovano un motivo per esistere se connessi al tempo e alla vita delle persone. Il peccato, il senso di colpa, la
redenzione, il percorso intimo e originale di ciascuno per recuperare la forza di andare avanti a vivere e a sperare.
Nel film di Eastwood la donna assume i lineamenti di Angelina Jolie, anche se, quasi casualmente (ma mai casualmente) alcune donne intervengono e s’inseriscono nella vita di Christine. È significativo
notare come sia la telefonata di una donna a ridare senso e, quindi, speranza a Christine. Oppure è anche significativo notare che all’apice della negatività del film, siano proprio le donne lo spartiacque
tra giustizia e ingiustizia all’interno dell’ospedale psichiatrico, nonostante la cattiveria del dottore corrotto che si scaglia contro Christine.
Changelling è un film in movimento che assume la
sua forma definitiva nel tempo. Non finisce quando termina, va oltre e continua ad esistere. Il culmine della storia è rappresentato dalla vicenda narrata da Eastwood che vede protagonista Christine
Collins, il suo bambino e le ingiustizie di una società corrotta e sporca. Ma Eastwood non si limita a raccontare la battaglia legale e l’incubo vissuto da una madre per il figlio. Non solo.
Eastwood recupera la dimensione tragica che aveva contraddistinto film come
Gli spietati, Mystic River, Million Dollar Baby, ritrovando secchezza del racconto, capacità di disegnare un apologo
stringente sul degrado della sua nazione e la prospettiva retorica già presente in un film come
Million Dollar Baby che rifletteva anche e soprattutto sul senso del dolore. Sono una costante nei
film di Eastwood alcuni elementi che si specchiano nel personaggio Christine: l’impossibilità di raggiungere una conclusione, una verità, una soluzione; la riflessione sul caso/destino; la solitudine;
la grandezza invasiva presente in alcune persone capaci di raccogliere le genti al loro passare; il rapporto con le divinità attraverso una preghiera costante, a volte invisibile, altre volte incessante,
che cerca di tradurre allo spettatore le sensazioni di un autore che, in fondo, crea un cinema fatto per non tradire l’animo dell’uomo. La classicità del racconto, la crudezza, la tenerezza fanno di
Changeling un altro tassello fondamentale del cinema contemporaneo firmato Eastwood. Un cinema fatto di mostri, incubi, sogni. Un cinema thriller, che demistifica, destruttura e decomprime le
ideologie, gli apparati stagni e fermi, impastati e miopi. È un cinema che s’interroga, indaga e spera. Sempre.
È un filo di speranza (e il doppio senso ci sta tutto) che lega i primi due film a
Rachel getting married di Jonathan Demme. Destabilizzante come la vita di Kym, che non riesce a spazzare via i
fantasmi di un passato fatto di droghe e alcol, il film di Demme indaga i ritmi e le modalità di una famiglia americana in vista di un atteso matrimonio. Che poi il matrimonio sia multirazziale e che Kym
sia accettata da pochi e poco non è certo un fatto irrilevante. Proprio dentro i particolari il film di Demme acquista tutta la sua essenza di film intimo e pungente. Improvvisazione, rimbalzi, dilatazione
temporale, dialoghi apparentemente innocui e devianti e poi uno sguardo lucido, sincero e vero sul personaggio di Anne Hathaway che nasconde il fascino (che comunque non manca) e mette davanti la propria
bravura, il proprio desiderio di essere compresa, capita, accettata, voluta bene. È un film sulle falsità famigliari, sui costumi da cerimonia, sulle maschere ma che si rivaluta e riposiziona
costantemente a causa della sua durezza, empatia, voglia di verità. È assolutamente significativo il rapporto tra gli “agenti esterni” di Kym (la droga, l’alcol, la depressione) e il suo essere “agente
esterno” rifiutato, rimbalzato, respinto dall’ottica perbenista e impaurita di chi attende qualcosa di diverso. Demme s’ispira al cinismo di Altman ma non si tira indietro nel cospargere il film di
elementi propri, come nel caso della lunga sequenza del filmino testimonianza dove i personaggi fanno a turno per essere il più possibile sinceri con risultati mescolati e inaspettati. La sorpresa è un
elemento che non manca in questo film, proprio perché, forse, è la stessa Kym a specchiarsi in questa condizione esistenziale.
Sorprendere, sperare, cambiare, la donna in tre donne.