Non è facile per un regista vincere il
Festival cinematografico di Cannes.
Vincere la Palma d’Oro significa entrare di diritto nell’Olimpo del grande cinema d’Autore.
I Dardenne sono riusciti a vincerlo due volte, nel 1999 con
Rosetta e nel 2005 con
L’enfant. Nel 2002, inoltre, Olivier Gourmet, protagonista de Il figlio ha vinto il premio come miglior attore. Ma sgomberiamo il campo da possibili equivoci: i due cineasti sono sì belgi francofoni (il che potrebbe rappresentare un buon viatico in un festival a volte accusato di sciovinismo e di favoritismi nei confronti dei prodotti nazionali) ma i premi sono assolutamente meritati.
Gli esordi nel documentario: l’estetica del pedinamento
Nonostante superino i cinquanta (Jean-Pierre è del ’51, mentre Luc è del ’54), la loro produzione non è vastissima. Sono quattro i lungometraggi realizzati dal 1996 a oggi: La promesse (1996), Rosetta (1999), Il figlio (2002) e L’enfant (2005). I Dardenne hanno però alle spalle una lunga carriera da autodidatti nella documentaristica di impostazione sociale, ricca di agguerriti video militanti. “Abbiamo cominciato a realizzare una specie di documentari nei quartieri operai” hanno dichiarato in un’intervista realizzata appena dopo l’uscita del primo lungometraggio: “Giravamo con mezzi ristrettissimi, filmando le scene in successione, non avendo un tavolo di montaggio. Poi la televisione belga si è interessata a noi e abbiamo iniziato a fare dei veri documentari, legati alla storia del movimento operaio in Belgio”.
Non ho mai visto nulla di questa produzione ma, anche a un’analisi superficiale, i loro film ne risentono profondamente sia nei contenuti (la scelta di raccontare vicende di personaggi ai margini) che nello stile. Come nel genere documentario, il fatto, il dato di realtà, costituisce l’unità narrativa del cinema dei cineasti belgi. È un faticoso e a volte, nella sua normalità, tragico quotidiano di personaggi, che vengono letteralmente pedinati dalla macchina da presa. I protagonisti vengono compressi all’interno di frenetici primi e primissimi piani, a volte claustrofobici, spesso alle spalle, per descriverne in profondità l’itinerario psicologico.
Estetica del pedinamento e centralità di ciò che è reale fanno dei Dardenne gli eredi ideali della poetica neorealista (la critica li ha accostati in più di un’occasione ad autori come Rossellini), e dell’umanesimo zavattiniano.
Fu infatti Zavattini a teorizzare, nell’ambito della sua lunga collaborazione con Vittorio De Sica, il cosiddetto “pedinamento del coinquilino”, la possibilità, cioè, di costruire un film che si fondasse sul materiale narrativo risultante dall’inseguimento, da parte della macchina da presa, di una persona qualsiasi, per esempio il vicino di casa.
L’etica della com-passione
Il vicino di casa dei fratelli Dardenne non è però un freddo e distante oggetto di osservazione. Una partecipazione compassionevole si sviluppa a partire da ogni singola inquadratura. Compassione nel senso di patire con i propri personaggi. La macchina da presa si pone al servizio dei protagonisti, il più delle volte adolescenti, e li accompagna nella presa di coscienza della propria identità, nella ribellione alla propria condizione, nel pentimento e nel riconoscimento dell’altro.
Lo stile diviene, come dovrebbe essere sempre, funzionale al contenuto, nella quantità e nella forma. Non c’è un’inquadratura di più né una di meno del necessario, in un quadro di sobrietà e rigore formale; niente musiche in apertura e chiusura di film, soltanto rumori di ambiente o musiche che provengono da oggetti, radio, televisioni, facenti parte della narrazione; camera a mano, fotografia decolorata… Radicalità assoluta, insomma, nessuno spazio né per l’effetto melodrammatico, né per compiacimenti stilistici o narcisistiche infrazioni delle regole.
Nonostante queste componenti, che, raccontate così, potrebbero anche spaventare uno spettatore che volesse accostarsi per la prima volta ai loro film, il cinema dei due Dardenne riesce a essere accattivante e fruibile da tutti per la componente di tensione emotiva e, in alcuni casi, persino di autentica suspense, senza giocare con i personaggi o indulgere nel facile colpo di scena.
Cinema dei figli o cinema dei padri?
Lo sguardo dei Dardenne si sofferma su vicende che mettono in gioco il difficile rapporto tra il mondo degli adolescenti e quello degli adulti.
I protagonisti dei loro film sono spesso degli adolescenti: ne La promesse, film che indaga sullo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, Igor è un quindicenne che prende coscienza degli abusi del padre nei confronti di questi esseri umani senza diritto di cittadinanza e decide di ribellarsi alla volontà paterna. La svolta avviene quando uno degli immigrati cade da un’impalcatura e, prima di morire, si fa promettere da Igor che si prenderà cura della moglie Assita e del figlioletto. Da strumenti per fare denaro gli immigrati, agli occhi del giovane Igor, si trasformano in persone da aiutare.
Rosetta è una ragazza molto giovane, costretta a lavorare per mandare avanti la baracca; la madre è alcolizzata e per sbarcare il lunario qualche volta si prostituisce. Entrambe vivono in una roulotte. La perdita del lavoro, in una situazione del genere, può scatenare reazioni incontrollabili…
Ne Il figlio Francis ha quattordici anni. Scontata una pena detentiva per aver ucciso un coetaneo si ritrova inserito in un centro di formazione per diventare falegname; Olivier è il responsabile della falegnameria ma è anche il padre del ragazzo ucciso da Francis. Per i Dardenne: “Il film si chiama Il figlio. Avrebbe potuto chiamarsi Il padre”.
Nell’ultimo lungometraggio, infine, ci troviamo di fronte a un duplice cortocircuito. Da un lato un elemento di ambiguità nel titolo: chi è il bambino (L’enfant)?
Per la sua immaturità potrebbe essere identificato con Bruno, poco più che maggiorenne, padre di un neonato che cerca di vendere al mercato nero delle adozioni clandestine, oppure, dal punto di vista anagrafico, con il neonato stesso. Dall’altro il fatto che a impersonare Bruno (il padre) sia stato chiamato Jeremie Renier, lo stesso che ne La promesse, dieci anni prima, aveva interpretato il quindicenne Igor (il figlio). Il cerchio si chiude: le colpe dei padri ricadono sui figli e sui figli dei figli, in una spirale apparentemente senza via d’uscita. E i Dardenne una via d’uscita non ce la vogliono proprio dare; ma forse una chiave di lettura la possiamo trovare…
Giudizio o comprensione?
… non si tratta di una chiave di tipo sociologico. Il quadro da “tramonto della civiltà” (una società che non è in grado di accudire i propri figli non può dirsi civile) descrittoci dai Dardenne, all’interno del quale si è tutti partecipi dello stesso destino, e in cui le tragedie collettive si riflettono in quelle individuali e viceversa, non sembra avere tra le finalità quella di aiutarci a trovare delle risposte certe.
Pur rimanendo nell’ambito di una certa cinematografia europea attenta alle numerose questioni sociali ancora irrisolte, ci troviamo in un territorio molto distante dalla ferocia polemica e dalla nettezza e sicurezza d’analisi per esempio di Ken Loach (che peraltro è spesso citato dai Dardenne come cineasta di riferimento).
L’intenzione forte è, invece, quella di contribuire a scavare più in profondità il solco delle domande.
Prendiamo a modello, in questo senso, gli ultimi due lavori dei registi belgi: ne Il figlio, con grande sobrietà e asciuttezza, lo sguardo sembra concentrarsi nel tentativo di fornire una risposta alla domanda: “Un padre può perdonare l’assassino di suo figlio?” Olivier (il padre) si carica questa croce sulle spalle, un po’ come i ragazzi del centro, Francis compreso, si caricano sulle spalle le assi di legno; il suo è un volto carico di indicibile angoscia. Ciò che i Dardenne descrivono è il turbamento interiore, del tutto laico, di un uomo che accetta di vivere la dimensione del perdono come un lungo e faticoso percorso, proteso nello sforzo costante di conoscere e capire l’altro (in questo caso, Francis) e i motivi o i non motivi che lo hanno spinto a un gesto tragico, rinunciando, in questo modo, alle lusinghe della vendetta.
In L’enfant la questione è diversa, sembra essere: “Perché un padre arriva al punto di vendere il proprio figlio?” Ma l’approccio è il medesimo, capire, conoscere a fondo la persona (il personaggio) che si ha di fronte, intraprendere la via difficile e tortuosa della comprensione evitando la facile scorciatoia del giudizio.
Elementi di discontinuità ne L’enfant
Pur nel quadro di una sostanziale coerenza stilistica ed espressiva, che rappresenta uno dei caratteri forti della filmografia dei Dardenne, nel film vincitore della seconda Palma d’Oro possiamo rintracciare qualche elemento di discontinuità.
Questo riguarda soprattutto la componente sonora del film: i dialoghi sono meno rarefatti, i rumori fuori campo tendono a forzare l’inquadratura quasi a voler spezzare quel senso claustrofobico al quale abbiamo accennato in precedenza (di straordinaria intensità è, in questo senso, la sequenza in cui avviene la vendita del neonato), la musica si affaccia nella sequenza in cui Bruno e Sonia ascoltano dall’autoradio un frammento de Il bel danubio blu di Strauss.
Lo sviluppo del film sembra concedere qualcosa in più all’azione e alla suspense vera e propria con, addirittura, una sequenza nella quale viene ripreso l’inseguimento in auto di un motorino nelle trafficate vie della cittadina nella quale il film è ambientato.
Un piccolo spostamento in direzione di un cinema che concede qualcosa nell’approccio con lo spettatore.