All’estero le cose vanno diversamente. I due giocatori più forti di sempre (ma solo perché Marco Van Basten e Roberto Baggio
hanno avuto più infortuni), Pelè e Maradona, rappresentano in qualche modo la contaminazione esemplare di calcio e cinema.
Il numero dieci brasiliano, a cui è stato dedicato il documentario
Pelè Forever, all’ultimo Festival di Cannes ha
detto: «Quando ero giovane mi dicevo che se non avessi sfondato con il calcio sarei potuto diventare attore. Ne ero
convinto. Oggi mi trovo al Festival di Cannes e mi sembra che si chiuda un cerchio». E infatti c’aveva già provato nel
1981 con
Fuga per la vittoria (John Huston,
Victory) nei panni di un prigioniero in un campo di
concentramento. Al suo fianco non solo Sylvester Stallone che pare un rigore, ma pure un’intera schiera di vecchie glorie
come Bobby Moore, Osvaldo Ardiles e Hallvar Thorensen. Il numero dieci argentino, invece, a parte la seconda carriera che
sta vivendo ultimamente da presentatore (conduce in Argentina
La noche del dieci), sarà protagonista di un film
diretto da Emir Kusturica. In effetti solo il regista bosniaco con la sua genialità visiva (o al massimo Quentin Tarantino)
avrebbe potuto portare sul grande schermo le prodezze e i problemi del pibe de oro. Amico nella vita, Kusturica ha
affiancato Maradona pure nelle manifestazioni politiche in Sudamerica contro gli Stati Uniti.
Fuori dall’Italia il calcio viene rappresentato sui campi di calcio. Rimane sempre un fenomeno sociologico e simbolico, ma
più frequentemente la macchina da presa si concentra sulle azioni di gioco. I risultati, pure qui, non sono esaltanti,
tranne in pochi casi. Non tutti i film, cioè, sono come il fulminante e delirante
Shaolin Soccer- Arbitri, rigori e
filosofia di zen (
Siu Lam Juk Kau, Stephen Chow, 2001) deviante visione del mondo del pallone, completamente
stravolto dai calci e dal punto di vista dei combattenti Shaolin. Un frullato demenziale e comico, completamente assurdo e
allucinato che ha nella versione italiana il doppiaggio di giocatori di Lazio e Roma.
La madrepatria di questa “de-generazione” è la Gran Bretagna. Nel 1997, il regista David Evans porta sul grande schermo il
successo di Nick Hornby,
Febbre a 90° (
Fever Pitch) con Colin Firth. Sullo sfondo del campionato 1988-’89,
un tifoso dell’Arsenal è diviso tra la passione per il calcio e l’amore per una professoressa. La metafora del calcio è
usata come chiave del rapporto con la realtà, dall’infanzia all’età adulta. Un film che descrive bene le passioni e le
emozioni anche grazie al supporto di immagini di repertorio. Completamente l’opposto di quello che succede in altri due
casi, dove l’approssimazione e una totale mancanza di padronanza dei due mondi, rendono i film quasi inguardabili. Nel
1999 Mary McGuckian è la regista di
Best (id.), film che racconta, purtroppo senza spunti originali, il dramma di
George Best, fantasista cupo, anarchico e completamente fuori dagli schemi del Manchester United. Nel 2001 è invece Barry
Skolnick che con
Mean Machine (id.) rievoca lontanamente la vicenda di Fuga per la vittoria, facendo leva sulla
partecipazione di alcuni ex-calciatori, tra cui Vinnie Jones, senza però emozionare e coinvolgere in alcun modo. Molto più
convincente invece è la vivace commedia di John Hay,
Jimmy Grimble (
There’s Only One Jimmy Grimble, 2001)
premiato al Giffoni Film Festival. Il film, nella sua semplicità, racconta le insicurezze di un giovane quindicenne tifoso
del Manchester City, la sponda più povera e quindi meno forte di Manchester, alle prese con la passione per il calcio e
con un paio di scarpini magici. Anche grazie all’aiuto di Robert Carlyle porterà la squadra scolastica alla vittoria del
torneo. Funziona, nel complesso, non certo per le riprese calcistiche, il ritratto sociorazziale che fa Gurinder Chadha
nel 2002 con
Sognando Beckham (
Bend It Like Beckham). Il calcio è lo spunto per Jess, diciannovenne
anglo-indiana, per evadere dalle costrizioni famigliari. Il capitano della nazionale inglese, David Beckham (ai tempi
ancora al Manchester United) è il suo sogno, la sua ispirazione.
Curioso e originale è poi il caso di un film francese del 2003,
Il cuore degli uomini (Marc Esposito,
Le Coeur
des hommes). Anche se il calcio è ai margini, ci si accorge progressivamente che rappresenta una delle chiavi di
lettura dell’intero film. I quattro amici sono quattro giocatori di calcio/vita: c’è il fantasista del gruppo (il classico
numero dieci), quello che se approfitta (il centravanti dell’area di rigore), il terzino destro (quello più ai margini
della manovra di gioco) e il portiere (che a volte incassa e a volte respinge gli attacchi degli avversari). Un gioiellino
divertente, che guarda all’amicizia e all’amore.
Sempre del 2003 è
Good Bye, Lenin! (Wolfgang Becker, id.) a identificare nei Mondiali di calcio del 1990 giocati in
Italia, con conseguente vittoria della Germania, un ulteriore punto di svolta nella storia tedesca dopo la caduta del muro
di Berlino. Non è marginale invece il ruolo del calcio nel film
Befreite Zone (inedito in Italia) di Norbert
Baumgarten del 2002. Le vicende della piccola cittadina di Sasslens si mescolano con quella della squadra di calcio della
città e del cannoniere “Blondie”. Conclude questa carrellata il film del regista Aleksey German Jr.,
Garpastum
(id., 2005), presentato all’ultimo Festival di Venezia. L’elegante film russo (il termine Garpastum è la translitterazione
russa del latino harpastum, cioè palla da gioco) racconta le vicende di quattro amici legati dall’amore per il gioco del
calcio, pieni di sogni e speranze, ma che dovranno fare i conti con i tragici avvenimenti accaduti tra il 1915 e il 1918.