FUORISCHERMO

 

VINCENT
Ovvero come uscire indenni (o quasi)
da un’infanzia difficile.
MARTINA PIZZAMIGLIO

VINCENT Se avete mai provato a cercare l’opera d’esordio di un regista a voi caro, vi sarete resi conto della difficoltà, e se siete particolarmente sfortunati dell’impossibilità, di portare a termine una simile impresa. Il diffondersi dei DVD in edizione speciale ha in qualche caso facilitato la ricerca. Da non molto tempo è uscito quello di Tim Burton’s Nightmare before Christmas di Henry Selick, nei cui contenuti speciali potete trovare il primo cortometraggio animato di Tim Burton, intitolato Vincent (1982). Sull’onda dell’entusiasmo mi sono spinta oltre la sua semplice visione e, dopo l’immancabile giro in Internet alla ricerca di qualche recensione, ho recuperato dalla mia libreria la biografia di Tim Burton scritta da Ken Hanke, da cui sono tratte tutte le citazioni. Quella che segue è in primis una riflessione sulla profonda diversità di Vincent rispetto ai prodotti dello Studio Disney (presso cui Burton lavorò all’inizio della sua carriera) e in secundis una parziale contestazione della tesi sostenuta da Linda Hutcheon in A Theory of Parody e riportata in un articolo di Michael Frierson, docente di teoria e produzione del film alla University of North Carolina.

RED E TOBY In principio fu la Disney. Nel 1976, dopo essersi diplomato alla Burbank High School, il diciottenne Timothy William Burton riesce ad ottenere una borsa di studio al California Institute of Arts (CalArts) fondato nel 1961 da Walt e Roy Disney. Dopo un anno passato a girovagare nel dipartimento di cinematografia della scuola, Burton decide di inserirsi nel programma speciale di formazione di nuovi animatori promosso dagli Studi Disney che, orfani di Walt da ormai dieci anni, cercano un modo per portare nuova vita alla loro stagnante produzione. Il progetto si rivela tanto buono nelle intenzioni quanto poco attuato nella pratica. Ben poca libertà viene infatti lasciata ai nuovi talenti, che assunti dai prestigiosi studi, vengono immediatamente irreggimentati e plasmati secondo «la Disney Way». Nel 1979 Burton viene affidato ad un animatore della vecchia guardia quale Glenn Kean nella lavorazione di Red e Toby nemiciamici. Kean si rende ben presto conto della scarsa attitudine del giovane aiutante a disegnare secondo le regole disneiane e gli affida solo scene secondarie con conseguente frustrazione del ventunenne Burton. In un’intervista del 1994 lui stesso ammette “Non potevo disegnare quelle volpi a quattro zampe della Disney. Non potevo proprio. Non potevo nemmeno imitare lo stile Disney. Le mie sembravano stirate da un camion”. Passato dal lavoro di animatore a quello di conceptual artist si vede rifiutare uno dopo l’altro i suoi soggetti considerati da tutti troppo bizzarri e poco commerciabili. Fanno eccezione la produttrice Julie Hickson e il capo del settore sviluppo creativo Tom Wilhite grazie ai quali Burton porterà a termine il suo primo progetto, Vincent appunto, storia di un bambino di sette anni che per sfuggire ad una noiosa e normale infanzia immagina di essere Vincent Price.

VINCENT PRICE Vincent rappresenta quanto di più lontano ci possa essere dall’estetica disneiana. I personaggi, i temi, le atmosfere e la tecnica sono i campi in cui si manifesta questa palese diversità. Innanzitutto Vincent Malloy è un personaggio realistico o meglio è “la raffigurazione abbastanza comune di un bambino della generazione di Tim Burton”. Ha una mamma, una sorella, un gatto e un cane e vive la sua ordinaria esistenza di bambino della middle-class americana. La sua fervida fantasia lo porta ad identificarsi con Vincent Price, attore di cinema tanto caro a Burton che negli anni ’60 diede il volto ai personaggi dei racconti di Edgar Allan Poe nei film di Roger Corman. Lo stesso Burton, parlando della sua passione per i film di Price, suggerisce una lettura in chiave autobiografica delle avventure dello scarmigliato Vincent Malloy. “Crescendo in periferia, in un’atmosfera considerata piacevole e normale (ma rispetto a cui nutrivo altri sentimenti), quei film erano un modo per arrivare a certi sentimenti, e io li collegavo al posto in cui crescevo (…). Vincent Price era qualcuno con cui potevo identificarmi”. Vincent è di fatto un omaggio a Price, che ne fu così lusingato da accettare il ruolo di voce narrante. Vincent, come tutti i bambini, manifesta un’innata cattiveria e crudeltà. Nei suoi sogni ad occhi aperti immagina di trasformare la zia in una statua di cera e il cane in uno zombie con cui fare strage protetto dalla nebbia londinese. Niente a che vedere con i personaggi disneiani protagonisti di zuccherose storie dall’immancabile lieto fine. Rispetto a questi Vincent è l’outsider, il diverso, il perdente, contrariamente a quanto suggerisce il suo nome. L’alternarsi delle ambientazioni reali con quelle che fanno da sfondo alle fantasie di Victor rende ancora più cupe e lugubri queste ultime. Sotterranei scuri, camere claustrofobiche dalle pareti a scacchi e architetture distorte, come le scale e le porte, rimandano alla tradizione espressionista tedesca. Le citazioni da Poe, la poesia The raven e il racconto Fall of the House of Usher arricchiscono ulteriormente il mondo di Vincent.
I temi di questo corto sono in sintonia con le sue atmosfere. VINCENT Il suo punto di vista sull’infanzia e sulla potere della fantasia è decisamente controcorrente. L’età dell’infanzia viene presenta in questo, come in tanti altri suoi film, come “una sorta di inferno solitario ravvivato soltanto dalla propria immaginazione e creatività”. Solo grazie alla propria fantasia si può sopravvivere. Con Vincent Burton “trasforma una tetra infanzia in periferia in un cupo mito in cui le invenzioni dell’immaginazione di un bambino solitario o incompreso diventano una grandiosa realtà”. In questa realtà non c’è spazio per gli adulti. Non a caso la madre e la zia sono raffigurate solo dal collo in giù (la macchina da presa rimane all’altezza di un bambino di sette anni) come a ribadire la loro estraneità dal mondo di Vincent. Le caratteristiche di questa realtà familiare rimandano all’infanzia del regista, segnata da uno scarso senso della famiglia e dall’atmosfera di apparente normalità che si respirava nell’America degli anni ’60 in piena Guerra fredda. Il mondo macabro e terrificante di Vincent/Burton è un modo per esorcizzare quel particolare periodo e tutte le sue fobie. Il corto, “cinque minuti dell’essenza di Tim Burton”, costato 60.000 dollari, non fece propriamente impazzire i dirigenti della Disney, i quali si limitarono a distribuirlo senza molta pubblicità presso i festival più “artistici” come quello di Chigago, dove raccolse un paio di premi e numerose critiche positive. Niente di cui stupirsi. Il prodotto non era considerato commerciabile e, fallito il tentativo di cambiare il finale, la Disney preferì condannarlo all’oblio. “L’idea che un bambino non malvagio e non mostruoso di sette anni indugiasse nel macabro e nel fantastico, (…) era davvero inaccettabile per la casa produttrice”. “Senza dubbio, aveva scarsa attinenza con qualsiasi cosa avesse mai portato il nome Disney”.

Vincent è realizzato con la tecnica della stop motion. Si girano pochi fotogrammi per volta fermando la macchina da presa tra una ripesa e l’altra e modificando di pochi millimetri la posizione dell’oggetto o del pupazzo. Montando di seguito le diverse riprese si rende l’illusione del movimento. “Nell’animazione tridimensionale c’è qualcosa che in certi casi ho sempre trovato più potente, più reale”. Non solo. Burton decide di mischiare questa tecnica con i tradizionali disegni bidimensionali con risultati inconsueti agli occhi di un pubblico abituato ad una rigida divisione tra le due tecniche. Il tutto in bianco e nero. VINCENT Parlare dello stile di questo corto mi dà l’occasione di contestare la tesi sostenuta da Linda Hutcheon in A Theory of Parody di cui anche Michael Frierson si fa sostenitore nel suo articolo intitolato Tim Burton’s “Vincent”. A matter of pastiche. In Vincent si possono individuare alcuni caratteri stilistici e tematici che rimandano ad altre opere. Le architetture distorte delle scale, delle porte e delle pareti a scacchi, il cui effetto è rafforzato dall’uso del solo bianco e nero per tutto il corto, fanno subito pensare ai film espressionisti tedeschi degli anni ’20, primo tra tutti Das Kabinett des Dr. Caligari (1920) di Robert Wiene. Se rimaniamo in campo cinematografico sono da citare come riferimenti iconografici i film che hanno segnato l’infanzia di Burton: quelli di Frankenstein, quelli realizzati da Ray Harryhausen in stop-motion come Gli Argonauti (1964) e infine tutti i “pittoreschi film horror” di Vincent Price. Last but not least ci spostiamo in campo letterario dove la completa identificazione di Vincent con i personaggi del terrificante mondo di Edgar Allan Poe gli fa perdere i contatti con la realtà. Questa ricchezza di riferimenti ha portato la Hutcheon e Frierson a considerare il corto di Burton come esemplificazione della tesi secondo cui spesso gli artisti esordienti attingono da altre opere per legittimare artisticamente il proprio lavoro. La Hutcheon ritiene che molti degli artisti contemporanei utilizzino questo metodo per convenienza e che l’allora immaturo Burton abbia trovato più semplice imitare lo stile di altri che crearne uno proprio. Questa tesi può sicuramente essere applicata a molti artisti, ma per quanto riguarda Burton bisogna tener conto anche di altri fattori. Non lo faccio solo per difendere a spada tratta il lavoro di uno dei miei artisti preferiti, ma per correttezza di informazione. Innanzitutto è lampante il fatto che Vincent contenga in nuce temi particolarmente cari al regista, come il fantastico, il potere dell’immaginazione, il contatto con il mondo dei morti, che sono al centro di tutti i suoi film, siano essi dal vero o d’animazione. Potendo infatti valutare a posteriori Vincent nella giusta prospettiva, mi sembra che sia un prodotto decisamente burtoniano. Sarei quindi più propensa a sostenere la tesi di Hanke il quale non nega queste influenze, ma ne dà un’interpretazione più calzante con l’esperienza personale del regista. “L’equivoco fondamentale è che, per Burton, questi antecedenti cinematografici non sono modelli bensì semplici influenze. Se mai ci sono modelli, si tratta dei ricordi distorti delle fotografie e delle pellicole impresse nella mente del regista, le idee che queste immagini, stati d’animo e storie richiamavano alla sua mente”. Das Cabinet des Dr. Caligari Prendiamo come esempio Caligari. Burton ha confessato di non aver mai visto quel film. Senza scartare la possibilità che possa aver mentito, è più plausibile pensare che il contatto con le atmosfere del film tedesco sia avvenuto tramite le fotografie di scena pubblicate nelle riviste di genere e nei libri sui film dell’orrore. “Il risultato è che Vincent traduce l’atmosfera di Caligari nell’idea di Tim di quell’atmosfera”. Quello che Burton trasmette è il ricordo di quel film, “l’interpretazione soggettiva di una memoria”.

Il fatto più divertente delle vicende legate all’accoglienza di Vincent all’interno degli studi della Disney è sicuramente il tentativo di modificarne il finale. Vincent simula, in modo tanto drammatico quanto ironico, la morte del personaggio che sta interpretando, dopo aver recitato gli ultimi versi della poesia di Poe intitolata Il corvo. Sconcertati dall’idea che il proprio pubblico potesse pensare che il protagonista fosse realmente morto, i produttori fecero pressioni perchè fosse inserito un lieto fine. Tra le diverse possibilità c’era quella in cui Vincent veniva salvato dai fantasmi della propria macabra immaginazione dal padre (che non era mai stato menzionato o mostrato prima) che lo portava ad una partita di baseball. Questa possibilità avrebbe completamente stravolto la concezione del film. Vincent avrebbe sicuramente preferito morire davvero che andare ad una partita di baseball”. Era ormai chiaro come Burton non fosse per nulla in sintonia con il modo di pensare dei dirigenti della Disney e dopo l’esperienza di Frankenweenie (1984) l’allora ventottenne Burton approda alla Warner per girare un film “per ragazzi” dal titolo Pee Wee’s Big Adventure. Ma questa è un’altra storia.

RIFERIMENTI
HANKE, Ken, Tim Burton. Una biografia non autorizzata, Lindau, Torino, 2001
per leggere Tim Burton's 'Vincent”. A Matter of Pastiche di Michael Frierson.
per una filmografia completa.
per saperne di più sui grandi registi di stop motion.


VINCENT SCHEDA TECNICA
Film d’animazione della Walt Disney Production Regia: Tim Burton; nazionalità: USA; anno: 1982; interpreti: Vincent Price (voce narrante); soggetto e disegni: da un libro per bambini di Tim Burton; sceneggiatura: Tim Burton; animazione: Stephen Chiodo e Rick Heinrichs; fotografia: Victor Abdalov; musica: Ken Hilton; produttore esecutivo: Rick Heinrichs; distribuzione: Buena Vista; durata: 6’, b/n; costo di produzione: 60.000 dollari.





TESTO DI “VINCENT” VINCENT