Avventurandosi nella cinematografia di Tim Burton si approda continuamente ad una figura: il Diverso. A partire da Vincent, il bambino introverso del suo primo cortometraggio, per proseguire con Edward, il Pinguino, Beetlejuice, Ed Wood, fino ad approdare agli ultimi, Edward Bloom, Willy Wonka e al Victor della
Sposa Cadavere. Senza dimenticare i curiosi personaggi di “Morte malinconica del bambino ostrica e altre storie”, creati dal genio di Burton, questa volta in veste di scrittore e poeta. Stralunati, eccentrici, feriti, romantici, sensibili. Costretti alla solitudine, perchè incompresi, sviluppano un ricco mondo interiore, fantasmagorico, ricco di magia, in cui il concetto fondante non è quello di realtà, ma quello di possibilità o ancor più di visione. Sono dei visionari. Come pure il regista che di fatto ogni volta è Edward, Willy Wonka, Victor.
E’evidente, infatti, e innegabile la forte impronta autobiografica del suo cinema. Non a caso, Burton, oltre che regista è spesso anche sceneggiatore delle sue opere. E sempre per il medesimo motivo, la sua impronta cinematografica è netta. Il diverso, il gotico, l’importanza della fantasia, lo sguardo fanciullesco, il romanticismo e la malinconia dei suoi personaggi, ma anche il sarcasmo e la dissacrazione riservata all’ipocrisia, alla stupidità e al falso moralismo della società moderna. Dietro alla favola, spesso, si celano attacchi violenti ai valori del perbenismo borghese, alla famiglia, allo stato imbelle (per esempio di fronte all’attacco dei marziani in
Mars Attacks!), al limitato e limitante razionalismo scientifico, che investe ormai ogni sfera della nostra esistenza.
Dalla prima parte della sua opera, senz’altro più dark dell’ultima, si evince però un certo pessimismo di fondo, che trova un esito diverso nelle sue ultime opere.
E’, infatti, espressa chiaramente un’impossibilità di comunicazione, di dialogo e di comprensione tra il Diverso e tutti gli altri, i mediocri, i “normali”, la gente comune. Anzi, ancora di più, vi è un netto rifiuto.
Pensiamo a Edward (
Edward mani di forbici), all’inizio ipocritamente accettato in “società” e poi scacciato e costretto all’isolamento. Oppure al personaggio del Pinguino (
Batman- Il ritorno), abbandonato per la sua deformità fisica dagli stessi genitori, esponenti dell’alta società, nelle fogne di Gotham City. Quest’ultimo, caso emblematico -e il più drammatico- di una vera e propria ghettizzazione del diverso, confinato nel sottosuolo, nel buio, nelle fogne, il luogo destinato alle sozzure, anche metaforiche, della società, salda invece ai piani superiori ai principi di apparenza e esteriorità. Questa frattura, però, conduce spesso a risvolti ed esiti negativi. Nel “migliore” dei casi i nostri personaggi, non riconosciuti e incompresi, si chiuderanno nella solitudine e nell’indifferenza altrui, o metaforicamente, nel castello abbandonato ai confini della comunità, come avviene in
Edward mani di forbici. Nel peggiore, come rappresenta in modo esplicito la storia del Piguino, pieni di rancore e odio, useranno questi sentimenti per architettare una feroce vendetta contro
la società. E in questo film, in cui viene messa in scena una vera e propria genealogia del diverso, è difficile stabilire da che parte stia il regista. Se parteggi per Batman al servizio della cittadinanza o per il Pinguino.
Come ho già accennato, invece, nei film più recenti si assiste a una rottura del paradigma burtoniano. I temi permangono. E’ l’esito che cambia. Ne è testimone anche un vero e proprio ribaltamento cromatico, molto evidente, come nell’ultima creazione del regista
La sposa cadavere, confrontato al precedente
A Tim Burton’s Nightmare Before Christmas. Se le atmosfere dei primi film erano cupe, ombrose, gotiche, espressioniste quasi ( si ricordi la fotografia in bianco e nero di “Ed Wood”), le sue opere più recenti sono letteralmente invase dal colore. Non a caso
Big Fish, che segna in modo eclatante la svolta cinematografica del regista, è il film più colorato della sua filmografia. Non solo. C’è una ridondanza, un eccesso di colore. I toni accesi ricordano quasi la pittura fauvista. Sembra che Tim Burton abbia voluto sottolineare in ogni modo questo suo cambiamento di rotta. A una determinata scelta cromatica, si affianca un nuovo modo di risolvere le vicende dei suoi personaggi.
Edward Bloom, nonostante la sua eccezionalità, nel vero senso etimologico della parola, non subisce il rifiuto della società e riesce a trovare negli altri personaggi stravaganti del racconto, e perciò diversi come lui, degli amici. Indimenticabile, tutta la sfilata di freaks burtoniani. Il gigante, le gemelle siamesi, il poeta-rapinatore, il capo-circense, la strega. La mancata accettazione da parte dei mediocri, viene sostituita con la comprensione degli altri Diversi. E’così Edward non è più solo.
Anche ne
La fabbrica di cioccolato agisce lo stesso meccanismo. Willy Wonka, ragazzino ferito e disprezzato (e quindi non riconosciuto) dallo stesso padre, si trasforma da “adulto” in un eccentrico-cinico e nevrotico, insofferente ai bambini, con una vera e propria idiosincrasia per tutto ciò che riguarda i facili sentimentalismi e la famiglia, tant’è che fa fatica o si rifiuta (e qui Freud avrebbe qualcosa da dire) di pronunciare tutte le parole riguardanti l’area semantica del nucleo famigliare.
Ma attraverso la conoscenza dell’animo saggio e gentile di Charlie, un vero e proprio “Piccolo Principe” cinematografico, riuscirà a trovare in lui e nei suoi originali parenti, una nuova famiglia.
Infine, nell’ultimo capolavoro,
La sposa cadavere, Tim Burton non risparmia il suo talento e mette in scena una storia dark e romantica, che funziona allo stesso modo. Victor, sensibile e introverso, altro Diverso della storia oltre alla Sposa cadavere, riesce a trovare nel noioso, superficiale e grigio mondo vittoriano, che non a caso Oscar Wilde chiamava “the Age of Mourning” (cioè “l’epoca del lutto”), affollato di personaggi terribili, egoisti e bigotti, un’altra anima gentile e delicata.
Diversi ma simili. Qualcuno, che ha gli “occhi” per riuscire a scorgere la sua bellezza, dietro alla sua goffaggine. Qui, al meccanismo di accettazione e riconoscimento da parte di un nuovo nucleo “famigliare”, Burton sostituisce il mito platonico delle anime gemelle. “Il contatto delle anime che si sono riconosciute tra la
folla delle forme effimere”.
Emblematico anche qui il capovolgimento cromatico rispetto al predecessore
A Tim Burton’s Nightmare Before Christmas, l’altra pellicola girata in stop motion. Se nel primo (cronologicamente), il mondo dei vivi era il mondo colorato e luccicante del Natale, contrapposto al mondo di Halloween, gotico, lugubre e dipinto con le sfumature del nero e del grigio, nel secondo, è proprio il mondo dei vivi ad essere tetro, triste e grigio, in coppia antitetica con il mondo dei morti, colorato e gioioso. Una festa danzante di blu, rossi e gialli. E in questo modo, il mondo per cui “parteggia” Burton e nel quale si identifica, passa dall’essere grigio a multicolore.
Questo ribaltamento, tutt’altro che dettato da un ubbidire alle logiche commerciali cinematografiche, rivela un mutamento interiore autobiografico, probabilmente dovuto all’incontro con la sua attuale compagna e attrice, Helena Bonham Carter.
In questo modo, il suo cinema, da espressione di paura e rifiuto dell’altro, e in un certo senso anche della Vita, diventa inno alla Vita, alla gioia, all’amore, alla libertà. Come testimonia la frase che il regista mette in bocca al protagonista di
Big Fish: “morire è la cosa peggiore che mi sia mai capitata”.