Se vi piace l’
horror può darsi abbiate visto
Phone,
The Eye, o
Two Sisters; se seguite il cinema d'animazione avrete visto
almeno
La città incantata o
Final Fantasy; se amate il cinema d'autore probabilmente starete seguendo i percorsi di Wong
Kar-wai (
In The Mood For Love,
2046,
Eros) o di Kim Ki-duk (
Primavera, estate, autunno, inverno… e poi ancora primavera,
Ferro 3), di Zhang Yimou o di Takeshi Kitano; se vi appassiona il cinema in costume e le storie di cappa e spada sarete
felici dell'uscita di
Zatoichi,
La tigre e il dragone,
Hero,
La foresta dei pugnali volanti; se il
noir è il vostro genere
avrete cercato di vedere
Double Vision o starete aspettando impazienti l'uscita di
Old Boy; se vi piace l'
action
festeggerete ogni nuova uscita di un John Woo e se vi piacciono i frullati di generi avrete accolto con curiosità film come
Chinese Odyssey,
Shaolin Soccer,
Le lacrime della tigre nera…
Cina, Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, Thailandia… Negli ultimi anni anche i nostri schermi si sono colorati
d’Oriente, con uscite sempre meno occasionali ma soprattutto con un riscontro sempre più positivo da parte del guardingo
pubblico italiano, più disponibile di qualche anno fa a lasciarsi tentare da qualche escursione al di fuori dei territori
del cinema hollywoodiano o europeo.
E’ un percorso iniziato una quindicina d’anni fa, di cui si possono seguire le tracce ad esempio scorrendo l’elenco dei film
premiati al festival di Venezia: tra l’89 e il ‘01, solo tra i Leoni d’Oro, si contano due film cinesi, due taiwanesi, uno
giapponese e uno vietnamita (ma anche film indiani, iraniani, russo-mongoli). Anche Cannes e Berlino riconoscono l’emergenza
asiatica: nel solo ‘97 Cannes incorona con la Palma d’oro
L’anguilla di Imamura e
Il gusto della ciliegia di Kiarostami, e
con il premio alla regia
Happy Together di Wong Kar-wai, mentre nel '01 Berlino premia con Orsi d'oro e d'argento un anime
giapponese (
La città incantata) e
Le biciclette di Pechino.
La novità degli ultimi tempi sta forse proprio nel cominciare a confrontarsi, da parte della distribuzione e del mercato - e
di conseguenza del pubblico e della critica - non più o non solo con prodotti d’autore e da festival, ma con una
cinematografia, com’è quella contemporanea dell’Estremo Oriente, copiosa, complessa e stratificata.
Se il rapporto dell’Occidente con il cinema orientale, fino per lo meno agli anni ’80, si limita infatti ad una lenta
filtrazione del cinema d’autore giapponese (Ozu, Ichikawa, Mizoguchi, Kurosawa, Oshima) e a sporadiche incursioni da parte
di produzioni di genere rivolte ad un pubblico popolare (la saga di Godzilla negli anni ’60, Bruce Lee e il
kung-fu movie
negli anni '70), quello che si trova di fronte oggi un cinema occidentale spesso ripetitivo e sclerotizzato nelle formule e
nei generi è invece un cinema giovane, vitale, formalmente innovativo, spregiudicato nell'uso dei generi e dei registri
narrativi (e spesso molto più radicale nella trattazione della violenza: per dare un'idea, in un "normale" film di vendetta
come
Old Boy, visto a Cannes 2004, si trovano incesti, amputazioni a vista, polipi mangiati vivi con tanto di tentacoli
frementi che fuoriescono dalla bocca.). Con un paragone azzardato e che lascia il tempo che trova, si può pensare al
salutare
shock impresso alla letteratura occidentale arrivata a decretare la morte del romanzo da parte della nuova ondata
della letteratura latino-americana dei Garcia Marquez, degli Amado, ecc. Autori come John Woo, negli anni '80, riscrivono
le regole del film d'azione; il cinema d'animazione, coltivato nella serialità televisiva, raggiunge la poesia con autori
come Miyazaki mentre
Final Fantasy, accreditato come il primo lungometraggio d'animazione con personaggi umani interamente
digitale, batte sul tempo ad esempio lo Zemeckis di
Polar Express; Wong Kar-wai rifonda l'estetica e l'etica del melodramma
romantico con opere insieme classiche e modernissime;
l'
horror trova nuova linfa nell'iconografia e nella tradizione
orientale dei film di fantasmi; il malessere dei giovani urbanizzati trova in Tsai-Ming-Liang un cantore paragonabile ad
Antonioni; mentre il cinema epico e di avventura rinasce a nuovi fasti grazie ad autori (con la “A” maiuscola) come Ang Lee,
Kitano e Zhang Yimou.
Per avere un’idea della dimensione del fenomeno del cinema orientale, si pensi che negli anni ’90 - prima della crisi dovuta
allo stato d’incertezza legato al ritorno sotto la sovranità cinese nel 1997 - Hong Kong, geograficamente poco più che una
città, era tra i primi tre produttori mondiali di film insieme a sub-continenti quali l’India e gli Stati Uniti.
Certo, il rischio che corre lo spettatore occidentale, più o meno esperto, è quello di subire una fascinazione che può
essere condizionata dalla voglia di esotismo e dalla scarsa conoscenza del panorama cinematografico orientale nella sua
complessità. Se è improbo riconoscere le influenze reciproche tra le varie cinematografie asiatiche, altrettanto difficile
può essere accorgersi degli influssi del cinema occidentale su quello orientale: credo nessuno abbia notato ad esempio come
La strada verso casa di Yimou possa essere letto come una parafrasi del
Titanic hollywoodiano. La storia degli intrecci
culturali è d’altra parte complessa e curiosa: si pensi al caso di
Per un pugno di dollari di Leone, ispirato al giapponese
La sfida del samurai di Kurosawa e il cui stile innovativo sarà a sua volta fonte d'ispirazione per molti registi di Hong
Kong.
D’altra parte, un film incoerentemente spezzato in due come
Maghi e viaggiatori può risultare comunque gradevole al palato
occidentale per l'ambientazione in un Buthan esotico e mai visto e
Primavera, estate, autunno, inverno… affascina con una
parabola di distacco dal mondo -
dal rischio e dalla gioia di vivere - che mal sarebbe stata sopportata, poniamo, trasposta
in un contesto cattolico. Ancora, il coreano
Ferro 3 (che deve molto al precedente taiwanese
Vive l’amour) presenta una
svolta narrativa apparentemente audace ma non così insolita in un cinema aperto al soprannaturale e abituato a storie d'amore
tra viventi e fantasmi.
Il cinema statunitense, la cui industria - peraltro chiusa alla penetrazione di prodotti esterni - deve coniugare la
“pesantezza” di un apparato che muove enormi interessi economici alla massima elasticità e flessibilità per poter cogliere
ed interpretare il nuovo, ha già reagito in diversi modi all’ondata orientale: sia importando registi di talento (John Woo,
Tsui Hark) o star orientali (Jackie Chan); sia con una strategia di
remake (
The Ring,
The Grudge); sia orientalizzando le
coreografie dell'
action movie contemporaneo attraverso la collaborazione di
martial art director in genere hongkonghesi
(
Matrix); sia infine attraverso una pratica autoriale e citazionista: in quest'ultimo senso è inevitabile citare Quentin
Tarantino, che, se per
Le iene si ispira a
City On Fire di Ringo Lam, con
Kill Bill costruisce una sorta di eclettico
monumento al cinema orientale popolare, dal
wuxiapian al
kung fu, siparietti comici compresi.