Viaggio nell'ultimo cinema di Martin Scorsese.
Dalle strade ai cieli: la finzione reale di vetro e luce
Proteggimi e accompagnami, con te (padre) non avrò paura. Un uomo cammina in un tunnel con suo figlio. Dalle viscere della
terra il loro futuro prenderà nuove forme. Il tunnel finisce. Si apre una porta, comincia la battaglia. La terra come
simbolo di fertilità, che genera uomini e storie di uomini. La
terra come simbolo di appartenenza alla padre/madre patria.
Oppure il
fuoco come simbolo del ritorno. Il fuoco che alimenta, e che dalla sua luce e dal suo calore fa risorgere le
ceneri, come una fenice, in una nuova vita.
Proteggiti e purificati, con te (stesso) non avrai paura. Una donna lava il corpo di suo figlio. Lo preserva. Il presente è
l'
acqua che purifica, che è segno della natività, simbolo di appartenenza al grembo materno. Un riparo materno. Il futuro è
nell'
aria, nelle nuvole che sono sogni. Il cielo diventerà
fuoco e poi
terra .
L’immaginario scorsesiano del nuovo millennio ha mutato le sue forme ma è riuscito a conservare i propri grandi desideri.
Prima con le battaglie tra nativi e immigrati in
Gangs of New York, poi con l'epopea del magnate Howard Hughes in
The
Aviator, Scorsese ha rinnovato, a tratti con dinamiche nuove, il suo ideale cinematografico. Il regista si è addentrato in
“nuove” tematiche e la “nuova” estetica rappresentativa (sempre puntuale e spettacolare) si è affacciata ad orizzonti che
mettono in luce sempre meglio, i lineamenti del suo grande ed eterno amore per l’America. Nelle recenti ossessioni scopriamo
infatti, nuove passioni, nuovi atti d’amore nei confronti della sua nazione che è piena di contraddizioni. L’America che
rappresenta è diversa ma è sempre la stessa. Con
Gangs, nei Five Points della seconda metà dell’800, abbiamo assistito alla
nascita di una nazione; con
The Aviator, invece, abbiamo volato nei cieli d'America tra la metà degli anni Venti e la metà
degli anni Quaranta. Gli ultimi esempi scorsesiani parlano quindi di lotte, di follie, di sogni ma anche di idoli. Scorsese
non vuole abbandonare il fascino per la rappresentazione della caduta degli dèi. In modi diversi, ma non molto distanti tra
loro, le due vicende rappresentano le ossessioni e le storie di uomini che vogliono cambiare la storia d'America e il loro
destino. Anzitutto vicende antropologiche. Come fulcro e fondale, l'America.
Ma facciamo un passo indietro. Le origini della mutazione scorsesiana hanno inizio nella seconda metà degli anni Novanta,
dopo la realizzazione del film
L’età dell’innocenza (1993), quando Scorsese firmò un contratto con la Universal Pictures
per realizzare
Casinò.
Casinò (1995), tratto da un libro di Nicholas Pilegi, come
Goodfellas, rappresenta una sorta di
testamento nella filmografia scorsesiana. Quello che il regista tratteggiò attraverso le vicende di Sam "Asso" Rothstein
(Robert De Niro), della sua amante Jinger (Sharon Stone), e del mafioso Nicky Santoro (Joe Pesci), non fu soltanto la fine
della Las Vegas degli anni Sessanta (disse Scorsese: «Las Vegas era alla fine del suo splendore. Quello che stava accadendo,
in un certo senso, era simile alle fine del West selvaggio, alla caduta delle città di frontiera del 1880»), corrotta,
sporca, e proietatta in un futuro ancora più buio. Scorsese con
Casinò firmò la terza parte della trilogia gangsteristica
cominciata con
Mean Streets (1973) e proseguita con
Goodfellas (1990). Una trilogia del dollaro e del Diodenaro, sanguigna
e sanguinaria dove il regista italoamericano inserì tutte le proprie passioni/ossessioni. L'uomo, che è una bestia corrotta
e istintiva. La cultura mafiosa, che è forza motrice. I rituali del cibo e della fede cattolica, che sono la ninfa della
vita. Le regole d'onore della Famiglia. L'ambizione e la carriera. Il sangue e i soldi. Le pistole e il rispetto. Il cattivo
che fa cose cattive come cardine delle vicende ma che affascina, del quale il nostro occhio non manca di provare compassione.
La redenzione. Ogni figura scorsesiana, soprattutto nella trilogia (ma non solo) ritrae le anime di uomini tanto forti
quanto vulnerabili, tanto padroni e potenti quanto sconfitti e afflitti.
Vittime e carnefici di se stessi.
La macchina di Sam Rothstein alla fine di
Casinò, salta in aria e si porta dietro gran parte di questo cinema. Con essa è saltata in aria
l'America del Diodenaro, e di conseguenza, l’intera trilogia. Quella è stata la fine.
C’era una volta in America, dunque, ma continua ad esserci. In modi diversi, con forme, tempi e soprattutto spazi diversi.
L’America di
Gangs è quella rappresentata dalle figure di Bill il macellaio (Daniel Day-Lewis) e Amsterdam Vallon (Leonardo
Di Caprio). Due icone, due personaggi opposti ma molto vicini. Come in una moneta, loro sono le due facce dell'America.
Bill è il passato che non vuole la contaminazione del nuovo (gli immigrati), Amsterdam è il presente che vuole aprirsi al
futuro.
Il
"vecchio” e il
"nuovo” al centro del conflitto sociale e territoriale. Bill è (o forse è stato) l’America.
Amsterdam sarà (o forse lo è già) l’America. Grazie al passato, che lo ha generato, ammiriamo la figura del “macellaio” che
è una delle più affascinanti dell’intero cinema scorsesiano. Non solo grande condottiero e uomo d’onore, ma anche occhio
vigile di un’intera nazione. Bill è il portatore dello sguardo e del punto di vista degli Stati Uniti, di allora ma anche
di oggi. Nel suo occhio di vetro c’è tatuata un’aquila, che è il sigillo ufficiale degli Stati Uniti e segno del potere.
Una vocazione al dominio scritta nel Dna dell’America. Bill è anche la più vera e grande contraddizione di sempre. E’
l’America della paura, che vive col sospetto e il timore,
che non riesce a dormire perchè ha un occhio solo e con quello
deve vigilare. Bill è vivo grazie alla paura che, inevitabilmente, genera violenza per preservare l’ordine delle cose.
Ma l’occhio è di
vetro, quindi
fin(i)
to. Rimangono solo la speranza nel nuovo e le ceneri del passato.
L’America di
The Aviator è altri luoghi e altri tempi. E' quella dello splendore dello Star System hollywoodiano, tra la metà
degli Anni Venti e la metà degli Anni Quaranta. Nuove stelle nei cieli della West Coast, da Frank Capra a Cary Grant, da
Henry Fonda a Fred Astaire. Soprattutto, la stella (cadente) di Howard Hughes (Leonardo Di Caprio), miliardario e paranoico.
Uno dei periodi più allucinati e produttivi della storia del cinema e della storia d'America, ruotava intorno ad un solo
disegno: l'ideazione e il mantenimento dell'immagine. Lo sguardo di Howard (Scorsese) Hughes, è anche qui il punto di vista
di una certa America. Quella tra le nuvole che sogna. Quella che fa sognare con il cinema. E Hollywood è la patria delle
finzioni, dei bagliori delle star e dei flash delle foto. Della finzione.
L'ossessione sono i soldi, che sono il potere. E
in questo senso Hughes è vittima e carnefice di se stesso: qualcuno che può apparentemente risolvere ogni cosa e ogni
problema, perché ha i soldi per farlo.
E' anche un rivoluzionario, uno che può e vuole gettarsi contro il sistema che è già
incontrollabile. Hughes rappresenta la grande parabola di una nazione che fu (ma forse lo è tuttora) fondata sulla trinità
"prendere, prendere, prendere". I cieli sono i sogni di un uomo (e di una nazione) che non riesce a cancellare il passato,
le paure, le paranoie. Nemmeno l'acqua riesce a lavare lo sporco. Hughes vive nella paura, e solo nella solitudine si
redimerà. Niente più flash, nessuna fotografia. Nessuna speranza, solo ricordi.
Martin Scorsese ampliando il suo immenso repertorio di storie, illusioni e utopie, continua a lanciare messaggi ad una
nazione sempre più frastornata. Sono passati più di quarant’anni dal suo primo cortometraggio (
What’s a Nice Girl Like you
Doing in a Place Like This?, 1963), e da allora il cineasta che disegna parabole, ha dilatato le forme del suo cinema, ha
mostrato nuovi personaggi e toccato nuovi temi, senza mai abbandonare il suo inconfondibile stile personale, autentico ed
espressivo. Che ricalca l’uomo forte e debole. In modo affettuoso e ispirato.