A guardare i palinsesti degli ultimi festival internazionali, si direbbe che il cinema italiano ha riacquistato un forte
interesse per la storia recente, che sembrava decisamente sopito nelle ultime stagioni.
A lungo rimproverato di guardare il proprio ombelico e di avere perso la capacità di rappresentare la società, il cinema
italiano sembra interessato da un promettente risveglio che (sorvolando le ultime due stagioni cinematografiche e
categorizzando a ruota libera) alla tendenza intimista e più incline ai toni lirici (Ozpetek, Soldini, Comencini, ecc.)
affianca un recupero della commedia di costume, intelligente ed aggiornata ai tempi (Muccino, Virzì, Rubini, Piva, Milani,
ecc.), tentativi (talora maldestri) di raccontare le ultimissime generazioni post-ideologiche e no-global (“Liberi”, “Ora o
mai più”) e anche originalissimi accostamenti a generi cinematografici di stampo anglosassone (l’
horror di Salvatores, il
noir di Garrone). Ma è proprio nel giro degli altissimi mesi che la Storia (recente, ma con la “s” maiuscola) irrompe sugli
schermi cinematografici italiani.
Quattro casi emblematici: Bellocchio che rilegge la vicenda del rapimento Moro (“Buongiorno notte” è preceduto di poco da
“Piazza delle cinque lune”, che ripercorre in maniera più effettistica lo stesso episodio), Bertolucci che rievoca il ’68
in “The Dreamers”, Giordana che racconta addirittura quasi quarant’anni di storia italiana con il televisivo (ma visto anche
al cinema) “La meglio gioventù”, e Benvenuti che compone con “Segreti di Stato” un dossier sulla strage di Portella delle
Ginestre.
Di fronte ad un dispiegamento di pagine di storia così massiccio, colpisce però la prospettiva eminentemente privata ed
intimista adottata dai due registi più “anziani” appena citati, Bellocchio e Bertolucci.
Particolarmente illuminante è il prologo di “
Buongiorno notte”, in cui la vicenda del rapimento Moro, con tutti i risvolti
oscuri, le complessità del momento storico, le implicazioni politiche, i misteri irrisolti, le polemiche mai spente che
hanno accompagnato la vicenda, viene ri(con)dotta al punto di vista di una giovane brigatista che - più che altro nel chiuso
del covo in cui è tenuto segregato lo statista - vede messe in crisi le proprie certezze: all’inizio del film vediamo una
coppia di sposini cercare un appartamento, l’agente immobiliare descriverne le caratteristiche, l’uomo prendere le misure per
la stanza del bambino - e il bambino arriva, in effetti, lasciato nel giorno fatidico alla giovane donna da una vicina in
difficoltà - ma la natività attesa (nel libro compare a più riprese un unico testo marxiano: “La sacra famiglia”) è un’altra.
Al posto di un bambino che esce dal ventre materno, c’è un padre rinchiuso in una prigione-utero; al posto dell’amore c’è
l’odio, al posto della generosità di chi dà la vita c’è la ribellione, e l’atto estremo di chi la vita la toglie.
La prigionia di Moro è vista come uno psicodramma famigliare; i brigatisti vengono rappresentati a tavola a mangiare la
minestra e a guardare il telegiornale, come una qualsiasi famigliola. La Storia si riduce ad un nocciolo duro umanistico,
chiudendo al di fuori il contesto, astraendo la vicenda in un racconto che adotta volentieri cadenze oniriche: operazione
interessante, che lascia però il dubbio che la Storia, in questo modo, non la si racconti ma la si neghi.
In un ambiente altrettanto claustrofobico e intimo si muovono i
dreamers di Bertolucci. Il tanto annunciato film "sul '68"
rinchiude, subito dopo un prologo protestario e cinefilo, i tre giovani protagonisti in un appartamento chiuso a qualsiasi
intrusione esterna (che non sia, ancora una volta, il sogno del cinema) e non li lascia più uscire fino alla fine. Il '68
diventa una privata scoperta del sesso e una soffice ribellione verso i padri, ma regressiva ed implodente, fino alle
soglie dell'autodistruzione.
Per molti aspetti affine ad un film di ormai un trentennio fa, “Ultimo tango a Parigi” (l’ambientazione parigina, il
personaggio americano, il sesso come forma di comunicazione esclusiva ed escludente, la pulsione erotica che si mescola a
quella di morte, il rapporto con il padre simbolico, la vocazione ad appartarsi dal resto del mondo, l’aspetto cinefiliaco
- in “Ultimo tango” parodiato nel personaggio interpretato da Leaud), e ad altri film bertolucciani per temi e ambientazione
, “
The Dreamers” risulta un film affatto giovanile, dove la Storia, chiusa fuori dalla porta, rientra dalla finestra quando
ormai, forse, è troppo tardi (non tanto per i personaggi quanto per il film stesso).
Come in “Buongiorno notte”, anche in “The Dreamers” al centro della narrazione e della simbologia del film si pone una
famiglia immaginaria: qui i legami del sangue (fratello e sorella sono addirittura fratelli siamesi disgiunti) si mescolano
a quelli anche incestuosi del sesso in una comunione panica tra individui “eletti” dalla comunanza del sogno. E una terza
famiglia guida l’escursione di Giordana attraverso la Storia italiana ne “
La meglio gioventù”: ai due fratelli protagonisti
si affiancano genitori, sorelle, mogli, figli, cognati, nipoti, amici, che popolano un affresco che si estende per sei ore
di film e per una quarantina d’anni di racconto (dal 1966 al 2003).
L’affollamento di temi e richiami alla storia italiana che fanno da sfondo alla saga famigliare dei Carati è talmente denso
(l’alluvione a Firenze, i movimenti di protesta del ’68, il terrorismo e gli anni di piombo, l’antipsichiatria basagliana,
la crisi della Fiat, le stragi di mafia, Tangentopoli…) da dare l’impressione che Giordana abbia voluto cogliere
l’occasione della durata televisiva per stipare dentro un solo film tutti i temi già presenti nelle sue opere precedenti e
quelli che ancora non vi avevano trovato spazio.
Al contrario dei film di Bellocchio e Bertolucci, il film di Giordana “esce” (con una bizzarria di realizzazione: le scene
in macchina sono realizzate con il vecchio espediente dei trasparenti) e respira di una dialettica tra vicende private ed
interni e storia pubblica ed esterni che negli altri film si risolveva in una segregazione fisica e simbolica dei
protagonisti che proprio all’interno della chiusura cercavano la propria verità.
Significativa è la presenza pressoché esaustiva, in un elenco quasi foucaultiano, di istituzioni sociali che circondano il
nucleo della famiglia, quali l’ospedale psichiatrico, la caserma, il carcere, la scuola, la polizia, guardate ogni volta
con un’ambivalenza problematica (per fare un solo esempio, la maestra Carati cerca di svolgere una funzione sociale e di
educare i propri allievi sostituendosi talvolta a famiglie assenti o carenti, ma poi con un ultimo sguardo al cortile della
scuola ne riconosce la natura concentrazionaria e repressiva).
Non ci sono famiglie invece in “
Segreti di Stato”: la ricostruzione della strage di Portella della Ginestra e
l’individuazione dei mandanti del bandito Giuliano (il comune movente anticomunista fa salire sul banco degli imputati del
film i governanti italiani e quelli americani, la Chiesa e la mafia) si basa su documenti e materiali storici, dove poco o
nessuno spazio è concesso alle vicende private e ai caratteri dei protagonisti.
Il tentativo di Benvenuti è rigoroso ed utile alla discussione
su una vicenda mai completamente chiarita, ma l’intento
documentario lascia sul terreno come vittima il cinema: tra le reiterate ricostruzioni su plastici o con l’ausilio di
figurine, alla fine l’unico vero momento cinematografico rischia di essere il colpo di vento che scompiglia le carte e
manda all’aria la minuziosa ricostruzione.